Le vicende personali hanno certamente segnato anche il suo modo di affrontare la vita professionale. Un ragazzo 14enne che, sradicato dall’ ambiente italiano in cui è cresciuto si ritrova in un Paese, il Canada, dove non conosce nessuno al di fuori della cerchia dei famigliari e di altri immigrati come lui.
Sergio Marchionne non possiede la lingua di quel luogo: l’inglese, veicolo indispensabile per capire e farsi capire, per orientarsi, per inserirsi e per farsi accettare, per poter studiare e affermarsi. Deve dimenticare il modo di pensare da italiano per calarsi nel modo di pensare di un “americano canadese” e trovare la sua strada e cambiarla più volte per “realizzare sé stesso”.
Ecco, realizzare sé stesso era la spinta che prima guida il ragazzo e poi guiderà il manager.
Se era impossibile per lui, e non lo voleva fare, dimenticare le radici, perché italiano figlio di una famiglia che aveva vissuto la tragedia delle foibe istriane e due volte emigrata, diventato a pieno titolo americano dovette trovare il modo di armonizzare questa sua doppia identità diventando appunto “sé stesso”.
Molte volte da manager affermato ripeterà nei suoi incontri con gli studenti:
- che bisogna abituarsi a vivere nell’incertezza;
- che non bisogna arrendersi di fronte al pericolo;
- che bisogna essere pronti ad affrontare il nuovo;
- che occorre guardare al futuro ignoto come un’opportunità, raccogliendone la sfida;
- che occorre consapevolezza e responsabilità.
Non si ribellò al mondo che lo circondava, ma cercò di studiarlo, di capirlo, di migliorarlo trovando soluzioni praticabili a problemi complessi che, minacciando l’azienda affidatagli, minacciavano anche la società civile e minacciavano il lavoro.
Nel discorso a Palazzo Chigi del 20 dicembre 2009 davanti al Governo e ai Sindacati italiani ammonì che occorreva «cercare un giusto equilibrio tra logiche industriali e responsabilità sociale… che nei momenti di crisi il puro calcolo economico potrebbe portare ad un bagno di sangue… e che l’attenzione esclusiva al sociale porterebbe alla scomparsa dell’azienda».
Non si ribellò al mondo che lo circondava, cercò di studiarlo, di capirlo, di migliorarlo trovando soluzioni praticabili a problemi complessi
Arrivò a giugno del 2004 in piena crisi, dopo che il Gruppo Fiat in due anni aveva vissuto la scomparsa dell’Avvocato Agnelli e del fratello Umberto e il cambio di quattro Amministratori delegati: Cantarella, Galateri, Barberis, Morchio.
Per prima cosa ridiede fiducia alle persone cambiando il modo di lavorare, cercando all’interno le risorse migliori, valorizzandole (è significativo il fatto che si sia portato al seguito un solo collaboratore anziché uno stuolo di consulenti), rilanciando l’immagine della Fiat con il lancio della 500 nel 2007 perché, come lui stesso ebbe a dire nel giugno 2009, «non si può immaginare una Fiat senza forti radici in Italia… Fiat fa parte di questo Paese, è un pezzo importante della sua storia e vogliamo che resti un pezzo importante del suo futuro».
Non ha mai inteso utilizzare le crisi come un paravento dietro cui nascondersi, ma era pronto a sfruttare tutte le opportunità che potevano presentarsi immaginando il futuro. Così nel 2008 per fronteggiare la crisi ridisegnò l’assetto del Gruppo separando le attività agricole e industriali dall’auto e predispose un piano che partendo dalla crisi del settore auto in Europa e in Nord America ottenne l’approvazione del Governo americano che gli diede: fiducia, responsabilità e finanziamenti per salvare la Chrysler.
In questo contesto, sempre facendo esercizio di futuro, consapevole che la sovracapacità produttiva europea non poteva essere saturata dai volumi europei, definì la produzione di vetture per il mercato nordamericano ristrutturando gli stabilimenti italiani, rendendoli tra i più produttivi a livello globale e con migliori condizioni di lavoro rispetto all’industria europea.
La costituzione poi di FCA gli consentì di mantenere la struttura produttiva europea legandola alla potenzialità del mercato nordamericano che nel frattempo aveva ampiamente superato la crisi.
Se si rileggono i suoi numerosi discorsi pubblici e si rivedono i messaggi promozionali da lui personalmente curati, più attenti alle emozioni che al prodotto, ci troviamo di fronte ad un personaggio che è stato anche un promotore della “cultura d’impresa”: un’attività che purtroppo in Italia non è stata compresa in particolare dalla parte più ideologica o da quella più dedita all’attività speculativa e sovvenzionata rispetto all’attività imprenditoriale.
Malgrado le incomprensioni e il feroce dissenso, ha avuto il coraggio di rivendicare il “diritto di fare impresa” a prescindere da prassi e vincoli rigidi, riprendendosi la libertà di negoziare al di fuori del sistema confederale. Non negava l’evidenza della necessità del cambiamento anzi, aveva un’idea entusiastica forse anche un po’ idealistica del cambiamento: che realizza un mondo migliore, che si prende cura dei guai causati dall’attività umana; ma era anche realista e consapevole che prima di tutto doveva rafforzare l’immagine di FCA e non indebolirla agli occhi dei competitors anche dissimulando con spregiudicatezza come in una partita a carte.
È stato anche un promotore della “cultura d’impresa”: un’attività che purtroppo in Italia non sempre è stata compresa
Ma proprio la necessità di ripensare al sistema industriale dell’auto in chiave ecologica ed irreversibile, lo induceva a ritenere indispensabile procedere con equilibrio: studiando e valutando i rischi; programmando il giusto tempo per compiere il percorso di attuazione del programma economico che comportava aggiustamenti difficili, tenendo conto di tutti i fattori in gioco; studiando per l’azienda il modo di finanziare la trasformazione.
Equilibrio inteso non come rallentamento, rinvio, temporeggiamento, ma come individuazione di un percorso da percorrere in un tempo definito, passo dopo passo prevedendo ogni singola decisione in modo da consentire all’azienda e ai suoi lavoratori di raggiungere la trasformazione per ridurre il più possibile il prezzo da pagare.
Equilibrio inteso come ridistribuzione, equa, progressiva e senza traumi, tra vari Paesi degli effetti più dolorosi e delle necessarie ristrutturazioni aziendali non scaricando tutti gli oneri e le conseguenze sociali su di un singolo Paese.
Oggi siamo di nuovo davanti a sfide ciclopiche per il settore dell’automotive con la riconversione dei veicoli da combustione interna ad elettrico in tempi oltremodo ristretti, in presenza di un mondo alla ricerca di un nuovo equilibrio geopolitico e di guerre tradizionali dichiarate e non.
E allora verrebbe da chiedersi come affronterebbe questa sfida il Dottor Marchionne?
A questa domanda, se si vuole spontanea ma inutile, non c’è risposta, ma un aiuto potrebbe arrivarci utilizzando la filosofia, il metodo di Sergio Marchionne che ho inteso richiamare con questo breve intervento.