Negli ultimi due anni abbiamo ripetutamente auspicato il celere palesarsi di un next normal, una prossima, nuova normalità che ci permettesse di lasciarci alle spalle lo tsunami di negatività portate dal virus. Oggi, però, con lo scoppio del conflitto ucraino, lo shock emotivo sta proseguendo: le terribili immagini che intercettiamo sui media ogni giorno si sommano al disorientamento collettivo della nostra società.
Il lavoro, nella sua interezza, è stato infatti plasmato e trasformato dall’impatto delle varie ondate pandemiche, tanto nelle modalità di accesso quanto nell’organizzazione delle aziende. Nuovi tech-based business sono nati, altri, invece, si sono dovuti reinventare, oppure, purtroppo, non ce l’hanno fatta.
L’accelerazione vissuta con lo smart working, oggi strutturato trasversalmente, continuerà – se usato con un approccio strategico – a rappresentare un valore aggiunto per garantire benessere ai lavoratori di nove aziende su dieci (dati Aidp – Associazione italiana per la direzione del personale).
Ad ogni modo, queste trasformazioni hanno aperto la porta al futuro, modificando profondamente il mindset delle persone, indotte a ripensare spazi e tempi delle proprie esistenze, nonché dunque il senso più profondo del proprio committment lavorativo. Nei manuali universitari di domani saranno studiate le tendenze sviluppate in questi mesi, in primis la “Yolo economy” (“You only live once” – Si vive una volta sola) che ha spinto migliaia di lavoratori a lasciare le proprie occupazioni per mettersi nuovamente in gioco, realizzando sogni personali e professionali, magari impensabili fino a poco tempo fa.
Per una causa – Yolo – un effetto: la “Great resignation” (o “The big quit”, che sia), ha mutato gli equilibri di migliaia di aziende con oltre 48 milioni di dimissioni nell’ultimo anno solamente negli Stati Uniti, secondo il Dipartimento del lavoro Usa. In Italia, invece, secondo il “IV Rapporto sul divario generazionale” della Fondazione Bruno Visentini pubblicato da Luiss University Press, quasi tre giovani su dieci vedono il proprio futuro fuori dall’Italia.
In Italia, secondo il “IV Rapporto sul divario generazionale” della fondazione Bruno Visentini pubblicato da Luiss University Press, quasi tre giovani su dieci vedono il proprio futuro fuori dal Paese
Oggi è percepibile come la forza lavoro, soprattutto la fascia più giovane, abbia altre priorità: non è più “workaholic”, non vive più per il lavoro, non è più ossessionata dalla ricerca di scalare gerarchie per fare carriera. Ciò che cerca e persegue in ambito lavorativo è una dose di benessere personale, oltre che di stimoli diversi, nuove motivazioni e una continuità valoriale e identitaria.
L’aspirazione oggi è ottenere un posto di lavoro che esalti il proprio talento ed i propri interessi: al contempo, le aziende, che avevano sempre valutato candidati sulla base di elementi come la laurea conseguita, il precedente lavoro o il proprio network, oggi guardano perlopiù alle skill “altre”, alle esperienze, a cosa un candidato “sa fare” e “può offrire”, se calato nel contesto di riferimento. Non a caso, secondo gli ultimi report di LinkedIn, oggi le competenze richieste sono cambiate di circa il 25% dal 2015 e sono state 286 milioni le nuove skill ai propri profili dagli utenti.
Di fronte alle nuove incertezze sistemiche di oggi, tra la “ri-globalizzazione” generata dalla guerra in Ucraina e il riassetto degli equilibri post-pandemici, l’ecosistema aziendale italiano vuole svoltare verso una nuova stagione di crescita e di produttività sempre più basata su competenze trasversali. In questa fase, le imprese chiedono alle università di formare “lavoratori ibridi”, dotati di una combinazione di “skill larghe” che uniscano una preparazione verticale nel proprio ambito di specializzazione a una forte dimestichezza con le nuove tecnologie, consapevolezza del proprio ruolo e maturità sociale e relazionale adattabile a contesti locali, nazionali e globali.
Siamo entrati, o forse tornati, dunque, nella stagione della “skill economy”, in cui la competenza rappresenta la nuova moneta, il reale valore aggiunto del mercato sul lavoro. Secondo il World economic forum, un miliardo di persone dovranno ri-formarsi entro il 2030: per questo, sarà imperativo per le aziende investire in piani di welfare, progressione di carriera, reskilling e upskilling. E allora, all’interno di una visione aziendale di medio-lungo periodo, perché non affiancare l’area Research & development (R&D) con un “Learning and development” (L&D) office, che abbia il compito di potenziare la crescita dei dipendenti, alimentare lo sviluppo di nuove abilità e migliorarne le prestazioni aziendali?
Un miliardo di persone dovranno ri-formarsi entro il 2030, come segnala il World economic forum. Sarà imperativo per le aziende investire in piani di welfare, progressione di carriera, reskilling ed upskilling
Al contempo, come ripetuto a più riprese dal Presidente del Consiglio Mario Draghi, la chiave è proprio “investire sull’educazione, sul futuro”, elevando – come dimostrato dal Pnrr – scuola e università a pilastri della società di oggi e di domani, ponendo le studentesse e gli studenti al centro di questi ultimi.
Dobbiamo essere consapevoli che non viviamo più nell’era della “iper-specializzazione”: oggi gli atenei, chiamati ad anticipare ed intercettare le esigenze occupazionali di aziende ed istituzioni, devono costruire con loro “a tavolino” percorsi interdisciplinari che integrino saperi e campi diversi, dal digitale alla sostenibilità, dal machine learning alle nuove vie del diritto, integrando la formazione dei giovani con traiettorie parallele.
Per navigare la crescente complessità dei fenomeni in tutti i settori, è infatti fondamentale offrire una nuova prospettiva agli studenti, mettendoli nelle condizioni di “andare oltre” lo studio tradizionale e (ri)scoprire la propria capacità di fare domande. Lo dice bene il filosofo norvegese Jostein Gaarder: “La cosa più importante, la cosa che non bisogna mai smettere di fare è quella di interrogarsi”. Questo approccio educativo “question everything” deve calare ragazze e ragazzi nello spirito dei ricercatori, agenti di cambiamento e promoter di innovazione che avvicinano il progresso, con lo scopo di coinvolgerli in prima persona in un processo di co-creazione della propria conoscenza, competenza e, soprattutto, consapevolezza.
Ma sarebbe riduttivo ipotizzare che l’apprendimento possa avvenire solamente in aula. Gli studenti devono poter imparare anche facendo esperienze “terze”, “larghe”, nuove, che li avvicinino ai vari attori con cui si confronteranno nelle proprie carriere. E dunque, confrontarsi con startup in rampa di lancio, partecipare ad esercitazioni delle nostre forze armate, oppure lavorare nei terreni confiscati alle mafie, rappresentano esperienze di vita che aggiungono valore ai cv dei professionisti di domani.
Affiancare il “learning by doing” al “learning by experiencing” è la ricetta per preparare professionisti consapevoli e dare forma ai loro sogni, consentendogli di generare da subito un impatto reale sulla società, che delle loro competenze creatici ha un forte bisogno.