I difficili negoziati nell’ambito della Cop26 di Glasgow riflettono tre dati strutturali della “transizione sostenibile”, legati al contesto geoeconomico (ma anche geopolitico) globale.
Il primo: i paesi con le più alte emissioni di CO2 non sono oggi quelli tecnologicamente ed economicamente più avanzati, e dunque da loro dipende in larga misura la possibilità di raggiungere gli obiettivi climatici degli accordi di Parigi del 2015. In particolare, la Ue rappresenta meno del 10% delle emissioni globali, ed è chiaro che qualsiasi sforzo europeo in tale situazione sarà insufficiente senza una forte collaborazione internazionale ben più ampia.
L’Ue rappresenta meno del 10% delle emissioni globali ed è chiaro che qualsiasi sforzo europeo sarà insufficiente senza una forte collaborazione internazionale
Il secondo dato: soprattutto i paesi con reddito medio più basso chiedono forme di compensazione finanziaria a fronte degli sforzi che vengono loro richiesti, ponendo la questione di come reperire risorse aggiuntive a quelle già dedicate alla transizione e come distribuire eventualmente questo onere tra i paesi più ricchi.
Un terzo dato di fondo è che a livello mondiale si registra un aumento della domanda energetica (soprattutto elettrica, visto che è in corso un vasto processo di elettrificazione delle reti e dei consumi, sia privati che industriali): ciò implica che senza un consistente aumento dell’offerta si generano spinte verso l’alto sui prezzi delle fonti energetiche (tanto fossili quanto rinnovabili). Queste spinte potrebbero anche rivelarsi durevoli e si rischia uno scenario negativo con effetti a cascata: una tendenza dei produttori a scaricare sul consumatore finale gli aumenti di costo (con effetti inflattivi che già stanno emergendo), che può provocare un calo del livello di consenso popolare per la transizione, il quale a sua volta ovviamente renderebbe più arduo il lavoro dei governi.
Alla luce di queste sfide strutturali, si deve affrontare il problema di come finanziare la transizione sostenibile e gli obiettivi ambientali, in un duplice senso: per assicurare investimenti adeguati nelle nuove tecnologie e infrastrutture, ma anche per garantire sostegni diretti o indiretti ai comparti produttivi e ai consumatori più colpiti, almeno nel breve e medio termine. Non va infatti dimenticato che la transizione ecologica/verde presuppone simultaneamente una profonda trasformazione industriale e un cambiamento delle abitudini o stili di vita degli individui. Inoltre, alcuni passaggi decisivi, fissati per il decennio in corso, giungono in coincidenza con un accumulo senza precedenti di debito pubblico globale.
A fronte di queste sfide, sembra emergere un principio generale così riassumibile: i modelli di crescita, sviluppo, e consumo devono diventare ecologicamente sostenibili; al contempo, perché ciò sia possibile è necessario che la transizione ecologica sia economicamente sostenibile, e non danneggi, ma invece rafforzi il consenso maggioritario nell’opinione pubblica dei paesi più avanzati e gradualmente anche negli altri. È quasi una quadratura del cerchio, che potrebbe imporre dei ritardi rispetto alla tabella di marcia fissata a Parigi e confermata dai vari impegni assunti successivamente da vari governi.
In altre parole, potranno essere necessari delicati compromessi tra due esigenze egualmente importanti: da una parte, l’urgenza degli interventi di riduzione delle emissioni; dall’altra, l’utilizzo massiccio di fonti energetiche che facciano da “ponte” verso quelle totalmente rinnovabili – fondamentale in tal senso il gas naturale. Si deve infatti tenere conto anche dei trend effettivi che si stanno registrando in questa fase di ripresa post-pandemia (o meglio, per molti paesi “cum pandemia”, solo parzialmente sotto controllo): i dati indicano che il consumo di carbone è aumentato fortemente soprattutto in Cina, ma anche a livello globale si prevede un aumento dell’utilizzo di fonti fossili – in larga misura dovuto al gas naturale – nell’arco dei prossimi vent’anni. Come ha sottolineato l’Ipcc, gli attuali trend sono incompatibili con il contenimento delle temperature globali che è ad oggi l’obiettivo ufficialmente condiviso.
A questi dati va aggiunta la discussione in corso sull’energia nucleare: in Europa c’è una forte spinta da parte francese (con l’appoggio ufficiale di una decina di governi) per l’inclusione del nucleare nella “tassonomia” delle fonti “verdi”, e il ruolo decisivo potrà essere esercitato dalla Germania con la sua nuova coalizione di governo in cui siederanno con ogni probabilità anche i Verdi. Intanto il Giappone ha, nel corso dell’estate, riattivato alcune delle sue centrali nucleari per la prima volta dopo l’incidente di Fukushima del 2011.
In Europa c’è una forte spinta da parte francese, con l’appoggio ufficiale di una decina di governi, per l’inclusione del nucleare nella “tassonomia” delle fonti “verdi”
In sostanza, è probabile che si dovranno lasciare dei margini di flessibilità a molti governi, se si vorrà ottenere il loro contributo attivo alle politiche di decarbonizzazione.
Guardando in modo più specifico al quadro europeo e italiano, la scommessa è chiara: l’aumento di efficienza energetica di interi settori economici deve diventare l’opportunità per un aumento della competitività e per un rinnovamento del sistema industriale.
Alcune tecnologie cruciali per la transizione sono già disponibili, ma guardando al 2050 è necessario svilupparne di nuove su larga scala, rendendole fruibili a costi decisamente più bassi di quelli attuali.
Il questo contesto dinamico, il pacchetto adottato dalla Commissione europea, “Fit for 55”, punta a integrare vari interventi in vista di un obiettivo più ambizioso rispetto a quelli fissati dalle altre maggiori economie. Ma la fase attuale del ciclo economico contribuisce a complicare i negoziati, con una ripresa faticosa, intralciata da seri problemi logistici e di forniture lungo le catene internazionali del valore, che inevitabilmente crea tensioni politico-sociali all’interno dei paesi-membri con richieste di ulteriori finanziamenti pubblici per molteplici scopi. In sintesi, è politicamente difficile fare appello all’opinione pubblica per nuovi impegni globali proprio quando gli obiettivi interni a ciascun sistema-Paese richiedono ingenti risorse (si pensi alla piena attuazione del Pnrr per l’Italia).
Proprio il ruolo italiano, con la presidenza del G20 e la co-presidenza della Cop26 assieme alla Gran Bretagna, è sintomatico dei delicati equilibri che andranno raggiunti: perfino l’Italia, membro del G7 e tra le maggiori economie della Ue, ha avuto bisogno di strumenti ad hoc da parte dell’Unione europea per facilitare il finanziamento della transizione (in realtà, una “doppia transizione”, digitale e assieme verde). In queste sfide si trovano anche enormi opportunità da cogliere. Per farlo non basta però il sostegno finanziario, che pure il Pnrr garantisce in buona misura, ma servono anche strumenti per favorire gli investimenti privati, a cominciare da una semplificazione normativa. Si tratta di realizzare riforme coerenti e complesse che si sono rivelate impossibili fino al recente passato.
In parallelo, sarà opportuno per l’Italia ragionare sempre in chiave sia nazionale che europea, visto che le reti infrastrutturali per l’energia (qualunque sia il mix di fonti) saranno transfrontaliere, e le catene internazionali del valore (da cui dipende più di altri un Paese tuttora “export led” come il nostro) resteranno decisive, anche in presenza di eventuali processi di parziale reshoring o nearshoring.