La Cina può fare di più. È il messaggio che arriva dalle cancellerie occidentali a pochi giorni dall’attesa Cop26 di Glasgow. Con la defezione ormai conclamata di Xi Jinping, svanisce la speranza condivisa di riuscire a strappare nuove concessioni all’uomo dei grandi annunci. È trascorso un anno da quando il presidente cinese ha promesso di traghettare il gigante asiatico verso il picco delle emissioni nel 2030 e la neutralità carbonica entro il 2060. Ma il tempo vola e la mancanza di un piano dettagliato lascia senza risposta la solita domanda: come passare dalle parole ai fatti?
A preoccupare l’Occidente è soprattutto la reticenza della Cina – primo emettitore al mondo di CO2 – ad abbandonare i combustibili fossili, ancora fondamentali per la sicurezza energetica della seconda economia mondiale. Durante il summit sui cambiamenti climatici organizzato da Biden in aprile, Xi è stato irremovibile: «la Cina – ha spiegato il leader – controllerà rigorosamente i progetti alimentati a carbone» e limiterà drasticamente l’aumento del consumo del combustibile fossile nel XIV piano quinquennale (2021-2025) «per poi ridurlo gradualmente nel XV piano quinquennale», quindi solo tra il 2026 e il 2030. Questo implica una possibile espansione di un utilizzo del carbone nei prossimi quattro anni.
Pur riconoscendo pubblicamente i progressi fatti dal gigante asiatico nello sviluppo delle rinnovabili, Stati Uniti e Unione europea non hanno mancato di ricordare come servano impegni più ambiziosi rispetto a quanto stabilito dagli accordi di Parigi per mantenere la temperatura non oltre gli 1,5° rispetto alla media preindustriale. Colpita dalle peggiori alluvioni estive “degli ultimi mille anni”, la Cina ha mostrato di avere preso coscienza della crisi climatica, ma non per questo di essere disposta a rivedere i propri piani di sviluppo. Soprattutto, considerate le responsabilità delle superpotenze occidentali nei confronti dei paesi emergenti. Da tempo Pechino recrimina il mancato supporto economico dei paesi sviluppati per facilitare la transizione energetica nel Sud globale.
Nel quinquennio del disimpegno trumpiano dai tavoli internazionali, la Cina ha cercato di sfruttare l’assenza americana per riposizionarsi al centro dei negoziati sul clima. Obiettivo: assumere un ruolo modello per le economie emergenti, di cui il gigante asiatico si considera ancora capofila. In questo senso va letta la recente promessa con cui Pechino si è impegnato a interrompere l’esportazione di progetti alimentati a carbone.
Nel quinquennio del disimpegno trumpiano dai tavoli internazionali, il gigante asiatico ha sfruttato l’assenza americana per riposizionarsi al centro dei negoziati sul clima
Una decisione che, secondo gli analisti, potrebbe portare alla perdita di circa 50 miliardi di dollari di investimenti già pianificati nel quadro della Belt and road, progetto con cui dal 2013 il Gigante asiatico finanzia e costruisce infrastrutture nelle economie emergenti. Questa posizione è stata ribadita durante la quindicesima Conferenza Onu sulla biodiversità, ospitata recentemente dalla Cina, con l’annuncio di un fondo da 232,5 milioni di dollari per la conservazione della biodiversità nei paesi in via di sviluppo.
Per Pechino la sfida resta come implementare l’agenda verde senza compromettere la propria stabilità economica. Il rapido incremento delle attività industriali dopo il Covid nell’ultimo mese ha innescato una crisi energetica che il governo cinese si appresta a fronteggiare allentando le restrizioni sull’utilizzo del carbone. Non solo aumentano le importazioni dall’estero; anche la produzione domestica ricomincia ad accelerare. Nella Mongolia Interna, regione che conta per il 25% delle attività estrattive del Paese, l’output è stato addirittura raddoppiato.
La lunga roadmap prevista per la decarbonizzazione tiene conto anche di un altro fattore: Pechino deve prendere tempo per capire come sopprimere gradualmente senza pesanti ricadute sociali un’industria che impiega ancora – direttamente e indirettamente – decine di milioni di persone. Nel frattempo, si tenta di mitigare l’impatto ambientale da una parte cercando di produrre più elettricità per ogni tonnellata di carbone bruciato e spingendo sulle rinnovabili – secondo un recente piano, l’utilizzo di combustibili non fossili dovrà raggiungere circa il 25% del consumo totale di energia entro il 2030. Dall’altra introducendo tecnologie per la cattura e il sequestro del diossido di carbonio, che permettono agli impianti industriali di intrappolare le particelle inquinanti. Una tecnica criticata da molti per i problemi tecnici e i costi elevati. Permangono dubbi anche sul sistema di scambio di crediti di carbonio, inaugurato quest’estate dopo dieci anni di sperimentazione e che per il momento è limitato al settore della generazione di energia elettrica, comprende solo 2.225 entità e operatori (molto meno rispetto a quello europeo) e non implica alcun tetto al volume di emissioni totale. Senza contare che mentre tutti sono concentrati a quantificare il taglio di CO2, la Cina rimane il primo paese per emissioni di metano, gas serra che nell’arco di venti anni è in grado di influire sul riscaldamento globale 86 volte di più dell’anidride carbonica.
Il Colosso asiatico rimane il primo paese per emissioni di metano, responsabili di influire sul riscaldamento globale 86 volte di più della CO2 nei prossimi 20 anni
Critiche a parte, il dossier ambientale si conferma ancora uno dei pochi argomenti di dialogo con Washington. Secondo funzionari statunitensi, le due superpotenze hanno tenuto circa 18 colloqui dall’insediamento dell’amministrazione Biden. Contando per oltre il 27% delle emissioni globali, la Cina sa di avere un peso negoziale non indifferente. «La cooperazione sino-americana sul cambiamento climatico non può essere separata dal sentimento generale delle relazioni sino-americane», ha dichiarato tempo fa il ministro degli Esteri Wang Yi, alludendo alla strumentalizzazione del clima per mantenere il dialogo bilaterale schivando tematiche più scivolose. Negli ultimi mesi Pechino aveva cercato una sponda in Europa. Ma la proposta della carbon tax ha indisposto la Cina, che rischia di vedere il proprio export penalizzato. L’ex ministro delle finanze cinese Lou Jiwei tempo fa ha avvertito che la lotta ai cambiamenti climatici non deve diventare uno strumento al servizio delle potenze commerciali per applicare politiche protezionistiche. Il timore è proprio che come il climate change può facilitare il dialogo diplomatico, ugualmente rischia di diventare vittima del braccio di ferro tra le grandi potenze.