Che clima c’è intorno alla Cop26? Di attesa, sicuramente, ma anche di diffidenza, incertezza, scetticismo. Il mondo si incontra a Glasgow per cercare di offrire una risposta, dopo i numerosi passaggi a vuoto che hanno seguito gli accordi di Parigi. E per avere il “termometro della situazione”, Progetto Manager incontra Luca Mercalli, climatologo e presidente della Società meteorologica italiana.
Professor Luca Mercalli, meteorologo, climatologo, divulgatore scientifico e accademico
Professore, il primo obiettivo che si pone la Cop26, cito dal sito ufficiale dell’evento, è quello di “azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C”. È possibile secondo lei?
Innanzitutto, ricordiamoci che ci sono state 25 Cop (ndr: conferenze delle parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) prima di questa, la speranza quindi è che non si areni come molte altre. Per quanto riguarda l’aumento delle temperature, si parte dall’allarme lanciato dal Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, lo scorso settembre: se le cose non cambiano, rischiamo un aumento di almeno 2,7 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Si dovrebbe innalzare, piuttosto, il livello delle “ambizioni”, degli impegni che i Paesi che si incontreranno a Glasgow dovranno mantenere. A mio parere, l’obiettivo di stare entro 1,5 gradi è perduto. Siamo troppo vicini, già a 1,2, parliamo perciò di pochi decimi di grado, quattro o cinque anni e probabilmente arriveremo a quella soglia. Riusciremo a contenere l’aumento entro i 2 gradi? Tutti si devono rendere conto che questa è un po’ l’ultima occasione se si vuole fare qualcosa, altrimenti la situazione non potrà che peggiorare, un po’ come per una malattia terminale. Abbiamo bisogno di uno scatto importante, di una consapevolezza maggiore che sia accompagnata da impegni precisi.
L’allarme lanciato dal Segretario generale dell’Onu sull’aumento delle temperature: se le cose non cambiano, rischiamo un innalzamento di almeno 2,7 gradi rispetto ai livelli preindustriali
Ecco, che cosa possiamo aspettarci da questa Conferenza?
Si stanno mobilitando diversi decisori mondiali. Anche il Papa è intervenuto per chiedere un cambio di passo, ma il grande elemento di novità può essere rappresentato dal ritorno in campo degli Stati Uniti, rientrati ufficialmente negli accordi di Parigi per volontà dell’amministrazione Biden. Sarà molto importante vedere quanto gli Usa sapranno incidere sulla Cop di Glasgow. A Parigi si rinsaldò l’intesa di uno stanziamento di 100 miliardi di dollari, ogni anno, da parte dei paesi ricchi nei confronti dei paesi in via di sviluppo per favorire la transizione ecologica. Ma bisogna che ci sia davvero la volontà di stanziare, anno per anno, tutti quei soldi, questo sarà uno dei temi scottanti della Cop.
Una transizione, quella ecologica, che ha molte difficoltà a decollare…
Sì, il traguardo della neutralità climatica al 2050 sembra sempre più difficile da raggiungere. Lo confermano anche i dati rilasciati di recente dalla International energy agency (Iea): si rilevano, nel settore dell’energia, segnali di una conversione verso le fonti rinnovabili, ma così non basta. A questi ritmi non si riuscirà a ottenere la neutralità al 2050, necessaria se si vuole mantenere la temperatura al di sotto dei 2 gradi.
Quindi, se non si cambia rotta, quali rischi si corrono in concreto?
Guardi, il pericolo non è per la Terra, che in qualche modo si è sempre adattata e si adatterà, ma è per l’umanità. Continuo a sentire un po’ ovunque il solito ritornello, vecchio di 40 anni, che recita: “Dobbiamo salvare il pianeta.” Ma il pianeta risponderà, il problema esiste per noi. Pensi a un evento estremo come la siccità che si riflette sulla produzione alimentare, in futuro potremo avere drammatiche carestie. Poi c’è il problema gigantesco dell’innalzamento del livello dei mari. L’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) ci dice che gli oceani stanno crescendo di 3,7 millimetri all’anno. Non è un problema futuro, il livello del mare sta aumentando adesso. Se riusciamo a contenere l’aumento delle temperature entro i 2 gradi, avremo 40 centimetri di mare in più, se non si fa niente e si va verso i 4/5 gradi, si potrebbe arrivare a 1 metro e 20! Allora lei pensi a Venezia, alle spiagge della Romagna, che faremo? Un bambino che nasce oggi sarà vecchio e non vedrà più località balneari come Cesenatico o Milano Marittima? Scenari davvero apocalittici insomma.
A proposito di giovani e futuro, non mancano le critiche alla “generazione Greta”, tacciata da alcuni di presunzione e disinformazione. La sua opinione?
Lo dico con chiarezza: io sto dalla parte di questi ragazzi. Greta Thunberg con i suoi appelli invita ad ascoltare la scienza. I tantissimi giovani, che in tutto il mondo si stanno mobilitando, vogliono amplificare la voce della comunità scientifica. Abbiamo ormai dei dati chiari e i governi non possono tenerli nei cassetti, ma devono utilizzarli per politiche che rispondano al rischio che abbiamo davanti. Del resto, è fortemente simbolico anche il fatto che due dei recentissimi premi Nobel per la fisica, quelli a Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann, siano stati assegnati a ricercatori per lo studio del clima. È la prima volta nella storia.
Se tutti siamo chiamati a fare la nostra parte, cosa si sentirebbe di dire a un manager?
Partirei da un’evidenza: se collassa l’ambiente, collassa anche l’economia. Se il clima diventa invivibile e se perdiamo le materie prime, viene a mancare l’oggetto della managerialità, non abbiamo più le risorse su cui costruire la nostra economia. Ogni buon manager sa che il capitale non si deve intaccare, se non con la possibilità che rientri. Quando il capitale finisce, l’azienda è destinata a fallire. In questo caso parliamo di risorse naturali, del capitale naturale e quindi nessuno può restituirlo. Ai manager dico pertanto di lavorare a una sostenibilità di lungo periodo, altrimenti non ci sarà più niente. E, si badi bene, la sostenibilità non si misura con i buoni propositi, ma con i chilowattora, con le tonnellate di rifiuti e di CO2. In breve, si misura con i numeri, non con le parole.
Ai manager dico di lavorare a una sostenibilità di lungo periodo che si misura non con i buoni propositi, ma con i chilowattora, con le tonnellate di rifiuti e di CO2. Con i numeri, non con le parole