Il dibattito sulla tassazione delle grandi aziende multinazionali si trascina da parecchi anni, ma la “spallata” è arrivata solo di recente, quando sono stati resi noti i dati sulla tassazione del tutto irrisoria che ha inciso sui margini cospicui realizzati dai cosiddetti “giganti del web”. È evidente che susciti scalpore – per non dire indignazione – che, su profitti di tali dimensioni che appartengono a pochi, il gettito impositivo sia prossimo allo zero, complice la più fervida creatività esercitata nel praticare tutte le forme elusive disponibili.
L’approvazione della global minimun tax, vale a dire l’aliquota minima del 15% sui profitti dell’impresa che realizza utili superiori al 10% in un singolo Paese, è stata presentata al G20 di Venezia come «un accordo storico su un’architettura fiscale internazionale stabile ed equa». A ben vedere, non si tratta semplicemente di dare una risposta a un’esigenza, che comunque sussiste, di maggiore equità fiscale. La decisione sconta una valutazione di carattere più generale sull’ammissibilità o meno di forme di concorrenza fiscale applicate da alcuni Paesi per attrarre capitali e attività imprenditoriali dall’estero.
A tal proposito, l’accordo del G20 non abolisce la concorrenza fiscale, ma tende in qualche modo a regolarla. Soprattutto non chiarisce quando la concorrenza fiscale diventa concorrenza dannosa.
Lasciare liberi gli Stati di far fluttuare le aliquote fiscali solo al di sopra di una certa soglia attenua la corsa al ribasso, ma non è una risposta esaustiva. Diverso sarebbe, invece, se preventivamente si adottasse un principio di uniformità delle basi imponibili.
Resta inoltre da affrontare il tema del profit shifting, vale a dire la possibilità di spostare i profitti nei paesi a incidenza fiscale bassa o addirittura nulla, semplicemente aprendo una società e, nel caso dei “giganti del web”, persino in assenza di una stabile organizzazione o di una sede fissa, trattandosi di servizi virtuali. Una condizione di oggettivo vantaggio, che altera le dinamiche di mercato e che la global minimum tax tende solo a mitigare, senza incidere più di tanto sui risultati delle società.
Sarà interessante vedere se e come l’approvazione di questa aliquota minima inciderà sui sistemi tributari dei vari Paesi. Dove già vige una bassa tassazione, come ad esempio in Irlanda che oggi applica sui redditi d’impresa l’aliquota del 12,5%, si tratterebbe di un incremento, modesto ma non neutrale. E non è un caso che proprio Irlanda, Estonia e Ungheria si siano espressi negativamente rispetto all’accordo che andrà ratificato il prossimo ottobre.
Speriamo che l’obiettivo di far pagare di più le multinazionali non accenda la miccia e non sia il pretesto per far pagare più imposte a tutti i contribuenti che, nel nostro Paese, sono abbastanza pochi e già abbondantemente salassati. E questo i manager purtroppo lo sanno bene!