Esiste un lato oscuro dello smart working? È vero che aumenta la produttività o, al contrario, incrementa le differenze tra settore pubblico e privato? In un’intervista al quotidiano Libero di qualche mese fa, Pietro Ichino – giuslavorista ed ex parlamentare – ha dichiarato che per una parte dei dipendenti pubblici il lavoro agile si è trasformato in una sorta di vacanza retribuita. Naturale, quindi, ripartire da qui per analizzare pregi e difetti dello smart working.
Prof. Pietro Ichino, giurista, giornalista e accademico italiano
Professor Ichino, ma davvero a suo giudizio il lavoro agile è stato una para-vacanza per il pubblico impiego?
Se avessi detto questo, avrei detto una sciocchezza. Ho detto, invece, che per una parte dei dipendenti pubblici, quelli che hanno “tirato la carretta”, l’emergenza pandemica è stata l’occasione per un impegno perfino superiore, rispetto al normale. Per un’altra parte non è stato così, o perché la loro prestazione non era suscettibile di essere svolta a distanza, o perché il gestionale dell’amministrazione e i database necessari non erano accessibili da remoto, o perché la persona non disponeva dell’attrezzatura informatica necessaria e/o di una connessione a internet adeguata. In questo caso, ma solo in questo, quella che è stata presentata dal ministero della Funzione pubblica come ricorso generalizzato allo smart working è stata in realtà una sospensione del lavoro.
I sindacati hanno molto criticato la sua posizione: ma immaginare controlli sulla produttività è pensare a un futuro “à la 1984” o è una necessità?
Il problema delle amministrazioni pubbliche in Italia è proprio questo: esse non sono in grado di distinguere chi lavora e chi no, quindi non sono neppure in grado di gestire adeguatamente gli incentivi economici che potrebbero essere utili. Così, non sappiamo né quali né quanti professori hanno attivato la didattica a distanza, né con quali modalità lo hanno fatto. Allo stesso modo non abbiamo alcun dato attendibile su quali e quanti dipendenti delle altre amministrazioni pubbliche hanno lavorato da remoto, né con quali risultati. Sappiamo solo che una parte lo ha fatto, un’altra poco, un’altra ancora per niente. Non necessariamente per sua colpa.
In compenso nel settore privato lo smart working si è tradotto in un aumento del carico di lavoro. Secondo una ricerca Eurofound, il 30% dei lavoratori “agili” ha svolto la sua mansione anche nel tempo libero o nel weekend, contro il 5% di chi andava in ufficio. Come se ne esce?
Non mi fiderei ciecamente di questi dati. In linea generale, si deve prendere atto di come l’evoluzione tecnologica produca l’evanescenza sia dei confini giuridici, sia delle differenze morfologiche tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Lo smart working è una manifestazione di questa evanescenza: esso introduce nel rapporto di lavoro subordinato segmenti di prestazione che hanno le caratteristiche proprie di quello autonomo. Questo implica che la struttura contrattuale del rapporto di lavoro subordinato deve cambiare: sul segmento di lavoro svolto nella forma “agile” il controllo dell’imprenditore non deve riguardare più la presenza della persona dentro il perimetro aziendale, né l’estensione temporale dell’attività, bensì il conseguimento di determinati risultati. Mutamento, questo, per il quale le amministrazioni pubbliche non sono ancora attrezzate, neppure sul piano culturale; ma il discorso vale anche per alcune aziende private.
L’evoluzione tecnologica produce l’evanescenza dei confini tra forme subordinate ed autonome. Lo smart working ne è la prova
Secondo lei ci troviamo per questo aspetto di fronte a una discriminazione – per certi versi incostituzionale – tra lavoratori pubblici e privati?
La disparità di trattamento grave sta nel fatto che nel settore privato per chi non può lavorare si attiva la cassa integrazione, con conseguente riduzione del trattamento economico; nel settore pubblico, invece, la retribuzione è del tutto insensibile all’eventuale sospensione della prestazione.
Nel Recovery plan una parte consistente delle risorse allocate per la digitalizzazione andrà proprio alla Pa: basterà questo per migliorare le cose?
Per migliorare le cose nelle amministrazioni pubbliche non basta avere nuove risorse: occorre anche l’immissione del necessario know-how manageriale. Un management che non abdichi alle proprie prerogative, ma le eserciti fino in fondo, anche perché responsabilizzato rigorosamente sui risultati.
Nella Pa, per migliorare le cose, non basta l’immissione di nuove risorse. Occorre know-how manageriale
Che cosa non deve mancare, per quanto riguarda le trasformazioni del mondo del lavoro, nel Pnrr?
L’investimento sui servizi al mercato del lavoro. Il nostro è gravemente carente sia del servizio di base, cioè quello dell’orientamento scolastico e professionale, sia di quello della formazione mirata alle esigenze specifiche delle imprese, sia di quello dell’accompagnamento al lavoro per le persone che incontrano difficoltà a reperire un’occupazione. Ma anche qui non bastano i soldi: occorre il know-how, che richiede tempo per essere acquisito.
È la tesi del suo ultimo libro, “L’intelligenza del lavoro” (Rizzoli). Dove sostiene pure che il mercato del lavoro deve essere considerato come il luogo dove sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore. Non le sembra un po’ azzardata questa tesi, in un momento di crisi nera?
L’indagine Unioncamere excelsior ci informa che anche in questo periodo le imprese programmano centinaia di migliaia di assunzioni ogni mese; e che in un terzo dei casi esse hanno difficoltà a trovare il personale che cercano. Si tratta di un enorme “giacimento occupazionale” che stiamo sprecando per difetto dei servizi al mercato del lavoro. E la cosa è più pesante proprio per la gravità della situazione di crisi.
Il vaccino anti Covid potrebbe risolverla. Lei si è detto favorevole all’obbligatorietà del vaccino pur in assenza di una legge che la preveda. Perché?
Sostengo che il datore di lavoro ben può – e anzi deve in applicazione dell’articolo 2087 del codice civile – richiedere il rispetto di questa misura di prevenzione da chi ne ha in concreto la possibilità.
Ma se il lavoratore è in smart working?
Anche chi lavora da remoto per un segmento del tempo, nel segmento successivo deve tornare in azienda, dunque a contatto con colleghi, fornitori, eventualmente anche utenti.