Questa sera desidero condividere con voi un messaggio di speranza.
Essere riuniti in questo luogo all’interno della Città del Vaticano ci consente di mettere ben in luce chi siamo. L’identità del manager è troppo spesso confusa agli occhi dell’opinione pubblica ed è danneggiata da una retorica che si nutre di noti stereotipi.
Perciò, ristabiliamo subito una verità: i manager rappresentano la spina dorsale dell’industria italiana, ne costituiscono il fulcro, il motore del cambiamento e dello sviluppo.
E poiché siamo colonna portante, dobbiamo rivendicare senza imbarazzo il nostro carattere di centralità e – se me lo concedete – anche le nostre virtù.
Dobbiamo essere capaci sempre di più di uscire dalla dimensione d’impresa e di calarci nella società. Stiamo intervenendo in supporto delle zone terremotate, non solo mettendo a disposizione risorse economiche, ma offrendo le competenze e il tempo dei nostri manager per ricostruire il Centro Italia colpito.
Federmanager, che sul territorio ha 57 sedi, agisce con un’ottica di servizio nei confronti del management, innovando di continuo il sistema di relazioni attraverso un dialogo aperto a tutti gli attori, istituzionali, di impresa, del terzo settore. In Europa, partecipa a un progetto di unificazione e rafforzamento della figura manageriale, alimentando il dialogo sociale europeo con proposte di sistema.
Partiamo da un modello di bilateralità che tutela le esigenze presenti e difende i diritti legittimi, che sono sempre esposti ad attacchi demagogici o, peggio, a basi tecniche strumentalizzate. Ma è un modello che sta evolvendo, per farsi carico di quelle esigenze che sono potenziali.
Il nostro sistema si muove dentro il contratto e dentro le singole realtà aziendali. Ci stiamo dando nuove regole e aggiornando i nostri statuti.
Con Confindustria e con Confapi abbiamo instaurato un dialogo continuo che sta offrendo risposte anche a problemi più generali, che riguardano la tenuta del Paese. Stiamo dando vita a nuovi enti che si occupano di politiche attive del lavoro in modo autonomo. Abbiamo anche avviato un progetto congiunto per introdurre nel tessuto imprenditoriale manager ad alta specializzazione, debitamente formati e certificati, in modo da essere competitivi al tempo della cosiddetta Quarta rivoluzione industriale.
Penso anche al sistema di welfare contrattuale e di secondo livello che abbiamo sviluppato negli anni: un meccanismo virtuoso che finora ha messo in garanzia beni fondamentali come la salute e il mantenimento della qualità della vita durante il pensionamento.
Tutto il tema del lavoro, e quindi dell’occupazione, oggi è investito dal conflitto, vero o presunto, tra uomini e robot. L’innovazione tecnologica spaventa in particolare i Paesi più industrializzati: proprio lì dove si cresce meno e si invecchia di più.
Sono vecchi i nostri modelli di produzione. In Italia più di un imprenditore su due ha superato i 60 anni. Anche la ripresa occupazionale dei manager over 50, che ha tante motivazioni e che è in sé accogliamo come una buona notizia, si scontra con il pessimo dato delle nomine dirigenziali under 40. Sul totale dei dirigenti in servizio, quelli fino a 39 anni d’età sono appena poco più del 5%. Dal 2011 a oggi i nostri dati mostrano che abbiamo perso un manager giovane ogni due.
Sottorappresentate anche le donne manager, che invece stanno dimostrando, dove è loro concesso spazio, una grande spinta all’innovazione e una capacità di leadership che produce risultati misurabili.
Più che spaventarsi di fronte all’avvento dell’automazione, occorrerebbe dunque investire nel capitale umano. Lo chiamiamo “capitale” ma stiamo parlando di “persone”, “risorse”, “intelligenze”, “merito”, “giovani talenti”.
Il tema non è la tecnologia. Il tema vero è consentire la modernizzazione del Paese attraverso un piano nazionale di sostegno alla crescita del capitale umano.
Il che significa, investimenti nel sistema dell’istruzione, investimenti nella formazione professionale continua, investimenti nell’alternanza scuola lavoro. E ancora, in ricerca e sviluppo, e nel passaggio di competenze tra senior e nuove leve.
Se non si cresce, non si crea occupazione. E non si cresce per decreto. Serve un progetto Paese che sia orientato a formare professionisti migliori e sia capace di trattenerli a casa propria. Alla vergogna degli “scontrinisti” va opposto il paradigma che imperava al tempo della vecchia fabbrica, quello dell’ascensore sociale per cui chiunque lo meritasse poteva nutrire un’aspettativa legittima di successo, a prescindere dalle sue condizioni di partenza.
È quello che è accaduto a noi. Non si diventa manager per titolo ereditario. Né per caso fortuito. Si diventa manager con molta fatica e dopo un percorso duro di selezione, formazione e valutazione del risultato. Quando si arriva a ricoprire un ruolo apicale in azienda ci si porta dietro questa consapevolezza e si diventa suoi portavoce.
Oggi si apre, dunque, l’occasione di un nuovo umanesimo industriale di cui noi manager ci sentiamo promotori e partecipi.
La relazione del presidente federale, Stefano Cuzzilla, è disponibile qui nella sua versione integrale.