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Una questione oceanica

Siamo all’ultima spiaggia. Se non ci prendiamo cura degli oceani, i cambiamenti climatici avranno conseguenze sempre più gravi. Un orizzonte di sviluppo sostenibile è possibile, valorizzando le opportunità della blue economy.

Spesso ci sediamo di fronte al mare a osservare le onde. È una sensazione piacevole: il loro lento rifluire sembra assecondare i nostri stati d’animo. L’acqua si prende cura della vita, e quindi anche di noi esseri umani. Eppure non si può dire che noi ci prendiamo cura degli oceani.

Le temperature superficiali degli oceani stanno aumentando gradualmente a causa dei cambiamenti climatici di origine antropica. Ogni dieci anni si riscaldano di una cifra maggiore di 0,1°C (in Europa questo incremento è più alto che altrove). Il più importante forum scientifico che si occupa di crisi climatica – l’Ipcc – ha stimato che entro fine secolo ci sarà un aumento della temperatura superficiale degli oceani di una cifra che varia da 1°C – nello scenario più ottimistico – a 4°C in quello peggiore.

Anomalie annuali della temperatura globale della superficie del mare dal 1880 al 2015, con periodo di riferimento 1950 (Fonte: National centers for environmental information)

La biodiversità marina è tragicamente minacciata. Ogni lieve variazione della temperatura dell’acqua può provocare grandi stravolgimenti alla distribuzione della vita sott’acqua. Le specie incapaci di resistere a temperature più elevate sono destinate a fare posto a quelle che meglio si adattano a un mare sempre più caldo; mentre le specie sessili, come i coralli e i molluschi, non potendo migrare in un’area più favorevole, sono destinate a scomparire.

Ma non è tutto qui, gli ultimi dati sono spaventosi. L’inquinamento è fuori controllo, e ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica entrano negli ecosistemi marini. Oggi gli oceani sono più acidi di quanto lo siano stati negli ultimi 26 mila anni. Avere oceani più caldi significa anche avere acqua che accumula più energia, e quindi eventi meteorologici estremi sempre più frequenti e intensi. Il calore accumulato, poi, influenza anche il livello di espansione termica (in breve: più l’acqua è calda, più ne è maggiore il volume); e se a questo aggiungiamo lo scioglimento dei ghiacciai terrestri, si stima che entro fine secolo arriveremo a un innalzamento medio del livello del mare di oltre 1 metro. In questo modo intere aree del pianeta, come ad esempio alcuni atolli del Pacifico o parte della Pianura padana, verranno sommerse dall’acqua.

Osservazioni satellitari del livello degli oceani dal 1993 a oggi (Fonte: Nasa) 

A poco a poco, e poi all’improvviso

Eppure gli oceani sono un alleato contro i cambiamenti climatici, poiché assorbono circa il 90% del calore in eccesso generato dall’emissione dei gas serra. Questo significa che il riscaldamento globale attuale è solo il 10% di quello che realmente abbiamo prodotto. In altre parole, se oggi non moriamo di caldo è grazie agli oceani.

Ma il punto è che questa capacità di assorbimento è legata alla temperatura dell’acqua: più la temperatura aumenta, più tale capacità si riduce. Insomma, più gli oceani si riscaldano, più le conseguenze dei cambiamenti climatici saranno impattanti.

Per descrivere l’inconsapevolezza con la quale siamo arrivati a tutto ciò, Elizabeth Kolbert ha citato un personaggio di Hemingway. “Come sei finito in bancarotta?” –  domandano a Mike Campbell, un veterano di guerra presente nel romanzo Fiesta. «In due modi – risponde Mike – A poco a poco, e poi all’improvviso». Ecco, in questo modo – a poco a poco, e poi all’improvviso – rischiamo di ritrovarci con un pianeta profondamente diverso da quello che siamo abituati a conoscere.

Economia blu

Ovviamente le implicazioni sulle attività economiche che si svolgono a ridosso degli oceani, dei mari e delle coste, sono enormi. Parliamo di un’ampia gamma di settori: dalla pesca al turismo, passando per il trasporto marino e le energie rinnovabili. Da qualche anno è stata coniata l’espressione economia blu (blue economy, in inglese) per indicare l’insieme di queste attività.

Secondo una stima dell’Ocse, entro il prossimo decennio le opportunità economiche legate all’economia blu avranno un valore pari al 5% del Pil mondiale. È fondamentale quindi che le future attività economiche si sviluppino seguendo modelli ambientali e sociali sostenibili. Non è un caso che le Nazioni Unite abbiano soprannominato il decennio che stiamo vivendo il “Decennio del mare. La sfida è dare forma a modelli di produzione e stili di vita meno dannosi per gli oceani.

Il primo passo è la protezione degli ecosistemi marini dalle attività umane. Il trattato sull’alto mare raggiunto lo scorso marzo può tracciare una via da seguire. Con questo accordo, l’Italia e altri 81 Paesi si sono impegnati a garantire la protezione dell’alto mare, ovvero la porzione di oceani che si trova oltre le zone economiche esclusive dei singoli Stati (stiamo parlando di circa metà della superficie del pianeta).

Il trattato stabilisce l’esistenza di aree libere da attività umane, e obbliga a effettuare valutazioni d’impatto ambientale per qualunque progetto realizzato in alto mare. Bisogna specificare che per l’entrata in vigore è necessario che ogni singolo Paese ratifichi il trattato seguendo le proprie procedure interne. Prima dell’effettiva entrata in vigore potrebbero volerci anni, ha avvisato l’Onu. Nonostante ciò, il trattato sull’alto mare è considerato una tappa cruciale in vista di un futuro accordo sulla protezione del 30% degli oceani entro il 2030 (attualmente siamo fermi solamente a 1,3% protetti), un obiettivo che la comunità internazionale si pone da anni.

Il secondo passo, dopo la protezione, è adeguare le attività economiche esistenti ai principi della decarbonizzazione e dell’economia circolare. In futuro solo l’attuazione di iniziative economiche rispettose degli ecosistemi, e l’adozione di soluzioni tecnologiche innovative e ambientalmente compatibili, potranno aiutare a tutelare gli oceani. In materia la Commissione europea ha disegnato i contorni delle future politiche nel Rapporto sull’economia blu.

Con quasi 4,5 milioni di dipendenti e un giro d’affari di oltre 665 miliardi di euro, i settori dell’economia blu contribuiscono in modo significativo all’economia dell’Unione europea, soprattutto nelle regioni costiere. I settori principali sono quelli tradizionale della pesca, l’acquacoltura, l’energia rinnovabile marina, le attività portuali, la costruzione e la riparazione navale; ma la Commissione europea ha evidenziato anche settori più emergenti, quali la bioeconomia blu, l’innovazione e la robotica blue-tech. Nel rapporto, pubblicato nel maggio 2022, la Commissione ha stabilito che in materia le priorità saranno il raggiungimento della neutralità climatica, la riduzione dell’inquinamento dovuto principalmente ai rifiuti di plastica, il passaggio a un’economia circolare e la produzione alimentare sostenibile.

Importanti investimenti sono previsti per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie innovative. Alcuni esempi: l’energia del moto ondoso e delle maree, la produzione di alghe, lo sviluppo di strumenti innovativi per la pesca o il ripristino degli ecosistemi marini. Tutto ciò contribuirà a creare nuove opportunità lavorative e di impresa. Un’attenzione particolare va quindi posta anche al mercato del lavoro: si avrà sempre più bisogno di profili professionali nuovi e personale qualificato a gestire le sfide poste dall’economia blu.

Dunque al futuro si può guardare con speranza. Tuttavia, bisogna tenere a mente che se non ci prendiamo presto cura degli oceani, l’intera vita del pianeta ne risentirà, compresa la nostra.

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