Nel passaggio dal fatto al resoconto, tutto si plasma secondo l’opportunità politica del momento. Dire le cose come stanno non è mai semplice, tutt’al più durante un periodo di campagna elettorale che stenta a concludersi. Ma asserire il falso può essere criminale. Dopo una fase in cui era tutto da abolire, un’altra in cui era tutto da cambiare, fino a quella attuale dove a tentoni si cerca il possibile accordo, viene da invocare solo una cosa: serietà.
Guardiamo ciò che finora le forze politiche hanno presentato in campo economico, spesso con sovrapposizioni: promesse che valgono decine di miliardi, nessuna indicazione sull’eventuale relativa copertura finanziaria, invettive generaliste contro il debito pubblico. Queste tre cose non possono stare insieme, è stato giustamente fatto notare.
La nostra bilancia economica ha fame di investimenti, soprattutto di capitali esteri che sono assolutamente sottorappresentati in un Paese che si presenta come la seconda manifattura al mondo. Piuttosto che sostenere una battaglia in Europa sul 3% del deficit, sarebbe il momento giusto per chiedere una più saggia assegnazione dei fondi europei, richiedendo incisività per recuperare aree dell’Eurozona che sono in grave sofferenza, a partire dal Mezzogiorno d’Italia.
La nostra industria ha poi bisogno di interventi sistemici per restare competitiva e soprattutto per innovarsi. Il Piano Impresa 4.0, ad esempio, ha dato respiro a molte aziende che oggi definiremmo senza dubbio dinamiche. Questo cammino non va abbandonato. Anzi, deve completarsi, comprendendo altri strumenti di investimento, oltre agli iper e super ammortamenti sui cosiddetti fattori abilitanti, per evitare, come sta pur accadendo, di perdere imprese per inerzia o immobilismo.
La crescita dimensionale, che resta una sfida tutt’altro che vinta, si inserisce in un quadro complessivo di migliori condizioni di salute della nostra industria, imparagonabili a quelle registrate nel 2008 e nel 2011. Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli indicatori, reali e predittivi, sono stati positivi. Il trend va sostenuto, con un atteggiamento di maggior fiducia, convincendo anche la communis opinio, mettendoci al riparo dalle esposizioni speculative.
Sullo sfondo c’è la partita delle nomine delle società a partecipazione pubblica: colossi come Eni e Ferrovie rischiano di finire danneggiati dal battibecco tra i partiti. A maggio scadono i vertici di Cassa depositi e prestiti e della Rai, mentre nel 2019 si cambia in Fincantieri e Snam. Inutile dire quanto sia fondamentale che il buon senso prevalga nell’interesse collettivo.
Altra questione su cui essere seri è quella del lavoro. Non volendo entrare affatto nella discussione sulla tipologia di sussidio al reddito, promessa, tentata, concedibile, di cui si è straparlato in campagna elettorale, scegliamo di soffermarci più volentieri su occupazione e occupabilità. Gli ultimi dati ci dicono che qualche posto di lavoro in più si deve alle riforme recenti, in un’Italia che resta pericolosamente spaccata a metà: la faglia separa non solo il Nord dal Sud, ma anche gli uomini dalle donne, gli over dai giovani, i lavoratori stabili dai somministrati, quelli con competenze qualificate da quelli meno specializzati.
Va riconosciuto, piuttosto, che l’Italia non riparte se non riparte l’occupazione. Per questo, il disegno del futuro Esecutivo deve includere sostegno alla formazione, collegamento reale tra mondo dell’istruzione e mondo dell’impresa, un sistema efficiente di politiche attive, una riduzione complessiva del cuneo fiscale. Meno incentivi spot, più misure di sistema.
Infine, ci sono riforme come quella fiscale e amministrativa che non sono più procrastinabili. Vanno fatte, qualsiasi governo sia in carica. Stessa cosa per il credito all’innovazione, il diritto societario e l’integrazione europea. I dazi di Trump, il capitalismo cinese, Brexit definiscono confini nuovi che dobbiamo affrontare. Per il nostro Paese, che si regge fortemente sulla leva dell’export, gli equilibri mondiali sono molto più di una semplice cornice.
Sono cose serie destinate a incidere sul nostro futuro, a prescindere dal livello di leadership che riusciremo a esprimere. Ci vuole maggiore senso di responsabilità perché al politico eletto il voto democratico chiede essenzialmente di governare, non certo di nascondersi dietro alle storture della legge elettorale. Al politico eletto, il voto democratico chiede anche una buona base di preparazione, per assumere le decisioni che servono. La questione della competenza, soprattutto, resta una questione generale.