Benvenuta, Italia che costruisce! Grazie per essere qui, grazie per essere così numerosi.
Voglio ringraziare tutti voi che, seduti davanti a me, siete gli esponenti di un mondo politico, istituzionale, produttivo e d’impresa che pone fiducia in ciò che oggi il management italiano saprà dire.
Noi siamo l’Italia che costruisce. Che guarda oltre e più lontano. Siamo la parte del Paese che sente la responsabilità etica delle ricadute sociali delle proprie scelte, che non abbandona l’idea di progresso per sostituirla con quella di un neutro sviluppo.
Siamo quel genere di persone che nel profitto non vedono la risposta, ma che abbracciano la visione di una maggiore ricchezza per tutti. Che non hanno paura del capitale, della finanza e del liberismo, ma che privilegiano l’economia reale. Che nel mercato ci stanno con le mani e con i piedi, sapendo che il sistema si regge sulla capacità delle persone e che non c’è alcuna entità aliena che possa sopraffare ciò che la ragione, o la razionalità, invece, sostengono.
Non c’è nulla di più contrario ai valori manageriali di quello che la psicologia ha definito il bias della negatività: l’abitudine a concentrare attenzione sull’errore, sul negativo, invece che sui successi e le competenze acquisite.
Questo non ci appartiene. Ci appartiene, piuttosto, l’idea di un Paese che coltiva una prospettiva di futuro.
Per questo siamo all’opera, costantemente. Ci impegniamo in azienda e anche dopo, quando raggiunto il pensionamento, continuiamo a restituire esperienze e contributi per crescere.
A questa parte di Italia che costruisce, che si impegna e di cui sono fiero, dico che Federmanager è al vostro fianco.
Ricordiamoci chi siamo, quindi, come prima cosa. E cerchiamo di capire cosa abbiamo di fronte perché non sono pochi gli ostacoli da dover saltare.
In questa mia relazione ne analizzerò alcuni. Non avrò paura di puntare il dito contro le inefficienze attuali e le minacce prossime. Dirò le cose come stanno, indirizzando il messaggio del management industriale a chi ha la responsabilità dell’azione di governo, a qualunque livello la eserciti.
Pertanto, parlerò di Europa, di opere grandi e piccole, di produttività, lavoro e tecnologia. Con l’idea che non esiste ambito che valga la pena di essere analizzato senza aver chiarito prima, come ho tentato di fare, chi siamo noi e perché il management italiano rivendica il sacrosanto diritto di dire ciò che va fatto.
Sul perché noi ci sentiamo innanzitutto europei.
Noi siamo innanzitutto europei. Anzi, a ben vedere, l’Europa è l’orizzonte minimo su cui ci confrontiamo. Questo non significa rinunciare ad adottare una strategia per l’Italia. Abbiamo un gran bisogno di una visione strategica per lo sviluppo del Paese.
Tornerò a breve su questo punto, ma qualsiasi essa sia, la nostra strategia presuppone l’Europa, non la suppone.
A due settimane dalle elezioni che rinnoveranno il parlamento di Bruxelles, il nostro messaggio è plastico: serve maggiore unità, serve un soggetto politico europeo e serve un’agenda europea.
Ci sono ragioni di mercato, ragioni sociali e demografiche a sostegno di questa tesi.
Il mercato ci impone di fare massa critica, sommando i Pil nazionali arriviamo da soli a valere oltre il 20% del Pil mondiale. L’economia europea, in termini di valore totale, supera quella statunitense.
Le diatribe sull’utilità o meno dell’euro sono, per noi, irricevibili. Nell’eurozona lavorano oltre 158 milioni di persone ed è un dato in crescita.
Possiamo ritenerci innanzitutto europei, oppure finire sotto scacco, fuori dalla competizione mondiale. È in particolare la Cina a ricordarcelo. La Belt and Road Initiative può trasformarci in una terra di conquista, come in un nuovo colonialismo a guida cinese, oppure aprirci la strada per un commercio più vivido.
Tra il 2007 e il 2017, il più elevato tasso di crescita delle esportazioni di merci europee è registrato proprio verso Pechino. Per quanto riguarda l’import, gli aumenti più consistenti vengono dalla Cina (+60 %) e dall’India (+66 %).
Le politiche industriali nazionali sono troppo conflittuali, forse per motivi di bandiera. I dati invece parlano chiaro: per ciascuno degli stati membri, gli scambi di merci intra UE sono superiori a quelli extra Ue.
Dal punto di vista sociale, dobbiamo difendere il modello che ha costruito il welfare state, che riconosce i diritti umani, che in definitiva ha bandito la guerra dal proprio suolo.
Le diatribe sull’utilità o meno dell’euro sono, per noi, irricevibili.
Possiamo ritenerci innanzitutto europei, oppure finire sotto scacco, fuori dalla competizione mondiale
Demograficamente, poi, l’Europa è sempre più vecchia. Perché viviamo più a lungo, prima evidenza dello stato di benessere, ma anche perché le nascite sono meno numerose. Una popolazione anziana non solo è meno dinamica, ma rischia il disequilibrio nel lungo termine. Il che vuol dire più spesa.
Perciò, a volerla vedere unita, la nostra vecchia Europa deve porsi il problema di come essere attrattiva, per i più giovani e per i più capaci.
L’unificazione europea ci ha reso forti. Questo processo, per noi, non è reversibile.
Il tema non è tanto se l’Italia se abbia titolo o meno di far parte della “Kerneuropa”, ma se l’Europa a più velocità sarà in grado di risolvere almeno tre questioni: l’euro, la sicurezza e la crescita economica.
In ciascuno dei tre campi l’unica chance è attuare politiche unificanti. Parlo dell’unione fiscale, del compimento del mercato unico, dell’armonizzazione delle regole della giustizia, di un’unione bancaria, e di un esercito europeo.
Ecco perché il 26 maggio sarà un banco di prova importante.
Il fatto di avere ancora molto da perdere vuol dire con tutta evidenza che non tutto è perduto.
Sul perché le opere infrastrutturali vanno realizzate, e basta.
Opera è la parola che associamo al genio di Leonardo, di cui ricorrono i 500 anni dalla scomparsa. La sua capacità di invenzione e sperimentazione ha aperto le porte a un rinascimento industriale di cui siamo stati il fulcro.
Si dirà, oggi, noi non siamo più la patria del rinascimento. Lo è forse la Silicon Valley. Lo sono, meglio, Singapore o Shenzhen.
Ecco, senza ecosistemi, senza reti, la società non progredisce. La verità è che non possiamo influenzare ciò a cui non siamo connessi.
L’Italia che costruisce è quindi un appello alla realizzazione di nuovi ecosistemi che collegano le produzioni, i centri di ricerca con le imprese, le città con le periferie.
Dalla nostra Assemblea parte un messaggio cristallino su questo: le opere infrastrutturali, grandi o piccole che siano, vanno fatte. E basta.
Sono sinonimo di modernità e di accelerazione. Sono soprattutto strutture che uniscono. Come è stata “la grande via del traffico e del lavoro che unisce il settentrione e il meridione del Paese”. Sono dovuti passare più di 60 anni perché avessimo compiuto il progetto della Salerno-Reggio Calabria.
E la storia sembra ripetersi con la Tav, l’infrastruttura su cui siamo riusciti a dividere il Paese, anziché collegarlo ai nostri vicini d’Oltralpe.
Non possiamo accettare lo stallo. Non possiamo soprassedere sul fatto che se si spreca l’investimento pubblico, si sabota l’attuazione, si variano i progetti, i primi a pagare sono i cittadini. Pagano le imprese e pagano i lavoratori.
Potremmo elencare tutti i cantieri fermi o raccontare della burocrazia che chiede all’impresa di indicare i nomi dei fornitori a cui affidarsi nell’eventualità di un’aggiudicazione che, se va bene, gli farà aprire il cantiere tra cinque anni.
Se si spreca l’investimento pubblico, si sabota l’attuazione, si variano i progetti, i primi a pagare sono i cittadini. Pagano le imprese. Pagano i lavoratori
Non è certo un problema solo di questo governo. È una situazione incancrenita che non è più sostenibile.
Guardate, il tema delle infrastrutture è collegato strettamente alla produttività di un’economia.
Trovo davvero imbarazzanti i commenti degli ultimi giorni sulle variazioni del Pil. Non siamo in recessione per decimali di punto, e abbiamo davanti lo spettro dell’aumento dell’Iva.
Vantiamo una posizione logistica, al centro del Mediterraneo, che dovrebbe da sola portarci vantaggio competitivo e non la sfruttiamo.
Una virtù delle politiche industriali dovrebbe essere la capacità di trattenere gli investimenti. Questa è una tipica abilità manageriale, che molti di noi hanno imparato a esercitare bene.
Sappiamo che gli investimenti richiedono fiducia e, a loro volta, creano fiducia reciproca tra paesi. E sappiamo che per questo sono anche molto volubili, si spostano al primo cambio di vento.
La fiducia si costruisce anche con gli interventi in infrastrutture e logistica. Non solo opere fisiche, ma anche virtuali: reti digitali, banda larga, 5G e cloud.
Questo piano di investimenti, compartecipato da pubblico e privato, disegnerà la nostra possibilità di porci come Paese industrializzato.
Su come imprese e manager possono vincere la sfida tecnologica.
A proposito di reti digitali. Il terzo tema fondamentale per noi manager riguarda l’impatto che la tecnologia è destinato ad avere su produttività e lavoro.
Tra tutte le rivoluzioni industriali che abbiamo conosciuto, quella attuale si connota per almeno quattro caratteristiche. Primo, è straordinariamente veloce. Secondo, è pervasiva, perché tocca trasversalmente tutti i processi, i prodotti, il modo stesso di organizzare l’impresa. Terzo, è a suo modo antropologica, come dimostra l’impatto che l’intelligenza artificiale sta generando sulle catene del valore, con effetti etici sulla relazione uomo-macchina. Quarto, è dannatamente selettiva: chi non sta al passo, non reagisce e non si trasforma, viene fatalmente estromesso dai giochi.
Accogliamo con favore la notizia del super ammortamento del 130% appena riconfermato dal Dl Crescita. Abbiamo collaborato con il governo, e oggi ribadiamo la nostra ampia disponibilità in tal senso, per introdurre una piccola ma fondamentale misura che è nota sotto il nome di “voucher per l’innovation manager”. È un segnale importante, che però aspettiamo ancora di vedere attuato.
L’investimento nel capitale umano deve diventare una priorità di sistema. Una priorità per il decisore pubblico, ma anche per l’imprenditore.
Quindi, consentitemi due preghiere distinte.
Mi rivolgo prima agli imprenditori in sala, al presidente Boccia e al presidente Casasco che interverranno dopo di me.
L’impresa per crescere va managerializzata. E i manager stanno aggiornando le proprie competenze per consentire all’impresa di fare il salto di qualità.
Il nostro Paese ha il 98% di piccole e medie imprese. Moltissime hanno carattere familiare e tra loro, il 70% ha l’intero management che è espressione della famiglia. Nei passaggi generazionali, si sgretolano perfino le realtà più virtuose: un’impresa su tre non sopravvive al cambio.
La nostra posizione logistica dovrebbe portarci da sola vantaggio competitivo e non la sfruttiamo
I nostri dati evidenziano una tenuta dell’occupazione manageriale, ma sempre più concentrata nelle imprese più grandi, mentre le Pmi faticano a competere alleggerendo il costo del lavoro invece che investire nelle competenze che oggi sono indispensabili.
L’alleanza manager e impresa è una delle risposte che dobbiamo dare a questo Paese.
Di quelle politiche su cui pretendiamo continuità di governo.
Al governo, alle istituzioni rivolgo un appello diverso.
Abbiamo bisogno di investimenti per favorire l’innovazione, con priorità la formazione di competenze digitali di elevato profilo.
Per questo, su Impresa 4.0 e tutto ciò che ad essa è correlabile, noi pretendiamo continuità di governo.
In un momento in cui la produttività tedesca sta rallentando, il nostro Paese deve esprimere continuità per ridurre il debito pubblico e per rilanciare l’industria.
La pressione fiscale è ormai al 43% del nostro Pil. Il carico fiscale sul lavoro può sfiorare il 120%. Il punto non è la flat tax, né il salario minimo. Il vero nodo è agevolare l’occupazione attraverso un’organica riforma fiscale che alleggerisca la morsa.
Stiamo perdendo talenti, perché la verità è che all’estero li trattano meglio! Ogni anno abbiamo 8 mila diplomati negli ITS, contro gli 800 mila circa della Germania. Per non parlare dei bassi tassi di occupazione femminile, conseguenza di un sistema che ancora considera le materie STEM appannaggio degli uomini.
Un’azienda per crescere va managerializzata. L’alleanza manager e impresa è una delle risposte che dobbiamo dare
Non è più sostenibile il tasso di skills mismatch registrato in Italia. Parliamo di un lavoratore su tre che non incontra il fabbisogno delle imprese, il dato peggiore tra quelli presi in esame dall’Ocse.
I nostri tassi di venture capitalist sono tra i più deboli. Va bene, va benissimo, aver istituito il Fondo nazionale per l’innovazione. Ma l’obiettivo deve essere la creazione di ecosistemi capaci di condividere informazioni e finanziamenti, e integrarli a livello paese.
Se vogliamo essere competitivi, dobbiamo ripensare il rapporto tra lavoro e tecnologia a partire dall’investimento nel sistema del sapere.
Sul nostro ruolo, e altre cose di cui siamo convinti.
Avere una convinzione e avere un’opinione sono due cose ben distinte. Abbiamo parlato di Europa, infrastrutture, lavoro e tecnologia. In questa parte finale della mia relazione voglio però concentrarmi a descrivervi ciò di cui noi, in Federmanager, siamo convinti.
Primo. Il futuro dipenderà dalla nostra sete di competenze.
Federmanager ha un disegno preciso: assurgere ad Accademia del management, il luogo che crea concrete opportunità di sviluppo di carriera. Dove si condivide e, se è possibile, si anticipa la conoscenza. Dove si formano i nuovi leader.
Questo approccio è la vera politica attiva del lavoro. Un approccio che abbiamo la responsabilità di diffondere in azienda e di sperimentare con i nostri collaboratori.
La seconda convinzione riguarda il nostro ruolo di rappresentanza: i corpi intermedi servono eccome. Non possiamo, però, limitarci a fissare i paletti sotto cui non è possibile andare, dobbiamo introdurre schemi innovativi di contrattazione per affermare condizioni al rialzo. Questa è la premessa per una nuova cultura della rappresentanza che si autodetermina nella sua funzione soprattutto sociale.
Un esempio è il progetto che abbiamo appena lanciato con il nome di “Governance2020”. Sosterremo i colleghi che rispondono a precisi requisiti di selezione che abbiamo affidato a primari consulenti sul mercato, nel candidarsi a partecipare alla governance delle società più rilevanti che andranno a rinnovo la prossima primavera.
Il ruolo dei corpi intermedi è anche quello di favorire l’avanzata dell’eccellenza, di far prevalere il merito, di dare un contributo al Paese.
Con questa visione, nel sistema Federmanager, promuoviamo anche soluzioni in campo previdenziale e sanitario. L’integrazione pubblico e privato è l’orizzonte su cui rafforzare il sistema di welfare per tutti.
Terza convinzione, e mi avvio a concludere: non ci sarà progresso se non terremo bene a mente la questione ambientale.
Abbiamo bisogno di investimenti per favorire l’innovazione, con priorità la formazione di competenze digitali di elevato profilo
Sulla sostenibilità ambientale si faranno gli investimenti più consistenti nel prossimo futuro. La sola economia circolare vale già più di 3 mila miliardi di dollari.
Il mercato ci chiede, anche in questo caso, di fornire competenze manageriali adeguate alla sfida. E non è un caso che Federmanager stia per avviare un nuovo programma di certificazione dedicato al profilo del “manager per la sostenibilità”.
Permettetemi di concludere con un’ultima convinzione, che riguarda la condizione femminile a cui ho fatto cenno.
Per risollevare il Paese basterebbe dare alla componente femminile della popolazione pari opportunità di lavoro e salario. Se impiegassimo un numero di donne pari a quello degli uomini, il Pil globale aumenterebbe del 26% e quello italiano del 15.
I nostri dati ci dicono che appena il 14% dei manager italiani è donna.
Oggi manifestiamo pubblicamente il nostro sì alla riproposizione della Legge Golfo Mosca e ci diciamo favorevoli al sistema delle quote fin quando in questo Paese la parità non sarà nei fatti.
Manifestiamo pubblicamente il nostro sì alla riproposizione della Legge Golfo Mosca almeno fino a quando in questo Paese la parità non sarà nei fatti
Se i fatti e la teoria non concordano, noi dobbiamo cambiare i fatti! È ciò che ho imparato ascoltando le nostre colleghe, facendomi raccontare le loro fatiche, le loro rinunce. Questo è un tema di civiltà, prima ancora di essere un tema economico.
È un tema che noi continueremo a portare avanti e che rappresenta per me il modo migliore con cui salutarvi.
Grazie a tutti per la vostra attenzione.