Intervistiamo Emanuele Orlando in collegamento da Francoforte. Da lì opera come Global Vice President Sales della Molding Solution, una business unit che rientra nel segmento industrial di Barnes, con una responsabilità di circa 500 milioni all’anno su 4 regioni mondiali: America, Europa, Cina e Apec (Asia Pacific excluding China). Molding Solution realizza tecnologie hardware e software per la produzione e lavorazione di prodotti in plastica e opera in mercati come medical, packaging, personal care, electronics e automotive.
Cosa vuol dire essere un talento italiano in grado di emergere all’estero?
Sono chiamato ogni giorno a coordinare un team composto da collaboratori asiatici, americani ed europei. Credo quindi che la capacità creativa che contraddistingue noi italiani mi aiuti moltissimo nella gestione di una squadra così multiculturale e composita sotto il profilo organizzativo.
In che senso? Ci spieghi meglio.
Parto da un esempio pratico: mi sveglio e i primi a cui mi relaziono sono i collaboratori asiatici, quando per loro è già pomeriggio. Poi, a ora di pranzo, interagisco con gli americani e durante l’intera giornata con il team di base in Europa. Comprende bene quanto possa essere sfidante quindi la gestione del tempo e quanto lo spirito creativo italiano mi possa agevolare per coordinare le attività in tempistiche così diversificate. A seconda della nazionalità, le persone hanno, inoltre, un retroterra culturale e un modo di fare business differente. Per guidarle, serve un approccio “verticale” quando occorre dirigere gli step operativi e un approccio “orizzontale” quando è invece opportuno condividere gli aspetti decisionali. È necessaria una capacità di lettura delle situazioni e occorrono altresì spiccate doti comunicative. Anche in questo essere italiani aiuta tanto.
A seconda della nazionalità, le persone hanno un retroterra culturale e un modo di fare business differente. Per guidarle, serve un approccio “verticale” negli step operativi e uno “orizzontale” quando è opportuno condividere le decisioni.
Il lavoro ha naturalmente un peso significativo nella sua vita e nella sua percezione del benessere…
Sì, di sicuro. I miei studi da ingegnere mi portano a ragionare sui numeri. Ipotizzando una media di 11 ore al giorno di lavoro – ma in realtà sono molte di più – e 6/7 ore di sonno notturno, dedico gran parte del mio tempo attivo al lavoro e solo una percentuale residuale a tutto il resto. Quindi, non vivere bene sul lavoro significherebbe incidere negativamente sulla piccola porzione di vita privata che rimane e che è invece da preservare. Vivere bene in azienda per me vuol dire esprimere pienamente se stessi. Da ex sportivo – ho praticato per anni la pallanuoto – mi piace utilizzare un’immagine: se sono un attaccante e il mister mi schiera in difesa, come mi sentirò? Arrabbiato, deluso. Ecco, credo che un buon manager debba essere in grado di valorizzare le capacità dei suoi collaboratori e, al contempo, se stesso. Anche perché il manager, a dirla tutta, non stacca mai, non ha orari fissi per definizione, ma si fa guidare da obiettivi ambiziosi.
Quindi per lei le motivazioni sul lavoro hanno un valore prioritario?
Sono decisive, ancor più dopo gli anni difficili da cui usciamo. La capacità di leggere le situazioni e motivare le persone è alla base del successo di un’azienda. Parlo di un processo consequenziale: se creo benessere, creo fiducia, posso delegare ai collaboratori e, in ultima analisi, genero accountability. Un collega che si percepisce accountable non ha bisogno del capo che gli dica cosa fare e così anche la gestione dei luoghi e dei tempi di lavoro diventa flessibile. A quel punto, l’ultima tappa del processo, che riguarda la fase di controllo, non si sostanzia nella volontà di controllare autoritariamente, ma interessa la verifica dei risultati raggiunti da una persona coinvolta e motivata.
Un collega che si percepisce accountable non ha bisogno del capo che gli dica cosa fare e così anche la gestione dei luoghi e dei tempi di lavoro diventa flessibile.
Cosa si prova a vincere il Premio come miglior giovane manager d’Italia? E quanto è importante per un giovane far parte di un network come Federmanager?
Le rispondo sinceramente: io ero già molto contento del riconoscimento ottenuto nelle semifinali territoriali. Poi entrare nella rosa dei top per la finale nazionale è stata una piacevole sorpresa ma, quando ho visto il mio nome al primo posto, l’emozione è stata grandissima. Al punto che solo adesso inizio a realizzare davvero cosa significhi. Vengo da una normale famiglia di un piccolo centro del Salento, essere arrivato a questi livelli mi riempie di orgoglio. Nella vita ho sempre cercato di “giocare d’anticipo”: mi sono laureato presto e sono diventato dirigente a soli 32 anni. Il Premio rappresenta un’ulteriore sfida vinta, ancor più per l’alto valore di tutti gli altri finalisti in lizza. Il Gruppo Giovani di Federmanager, di cui mi onoro di far parte da anni, costituisce un’assoluta espressione dell’eccellenza manageriale giovanile che stimola un networking positivo e offre continue occasioni di utile confronto professionale. Infine, far parte della famiglia Federmanager, vuol dire beneficiare di opportunità di alta formazione e consolidare una reputazione personale che è fondamentale per il mercato del lavoro. In base alla mia esperienza, se bisogna scegliere una persona da mettere in posizione apicale, far parte di una rappresentanza qualificata è un valore aggiunto.
Da giovane manager in rampa di lancio, cosa ne pensa del “mantra dell’innovazione”?
Spesso si ha una visione dell’innovazione come esito di attività di Ricerca&Sviluppo, ma io credo che sia anzitutto opportuno chiedersi: come manager riesco, per prima cosa, a innovare me stesso, giorno dopo giorno? Riesco cioè a leggere l’evoluzione del mercato e del settore di riferimento? Se ho questa capacità, posso innovare, avendo ben chiaro però che portare un cambiamento laddove non è opportuno, può essere addirittura controproducente. Si sentono spesso proclami sull’innovazione ma, senza una reale cognizione di causa, l’effetto è quello di disperdere energie e credibilità. Piuttosto che lavorare per slogan, bisogna credere nei processi, provando ad attuare piccoli, ma incisivi, cambiamenti e puntando sempre a costruire un vantaggio competitivo, perché il mercato non si ferma.