Il Sud è giustamente un tema cardine non solo per le popolazioni di questa area, ma per tutto il Paese. Lo sappiamo, ed è giusto che si parli tanto di questo tema è di assoluta importanza. Il punto però è: se ne parla sempre, o quasi sempre, nel modo giusto?
Quando di un tema si parla tanto e da tanto tempo, infatti, il rischio è che se ne parli in modo inflazionato e dunque inefficace. Pensate a temi come la sostenibilità o l’apertura al sociale, che finiscono spesso vittime del green washing o del social washing, cioè di una superficiale riverniciatura verde o di sensibilità sociale, fatta per motivi di promozione commerciale o, addirittura, per nascondere scelte che rimangono non rispettose dell’ambiente o dei diritti di singoli e comunità. Oppure scatta quella che io chiamo la “commoditizzazione” di un concetto, rendendolo talmente comune (le commodities come risorse di cui si dispone a prescindere) da farlo diventare non più incisivo: si pensi a quanto accade da circa trent’anni in molti casi alla certificazione di qualità, che perde autorevolezza perché tanti cercano di averla con modalità rapide e burocratiche, venendo meno così il valore distintivo che quel modo di lavorare dà, qualora venga seguito seriamente.
Chiediamoci allora se il Sud rischi di diventare un concetto “commoditizzato”, col “rilancio del Mezzogiorno” come un copy-paste che si mette in ogni discorso, o addirittura un concetto vittima di quelle riverniciature rituali che potremmo definire “Sud washing”, fatto di comode e opportunistiche citazioni e di qualche esperienza usata come driver promozionale.
Un caso analogo, che però può suggerirci qualche controindicazione (ammesso che siamo ancora in tempo…), è quanto accaduto alla Csr, quella Corporate social responsibility che pure corre il rischio della commoditizzazione della propria carica positiva. Molto spesso, infatti, questa modalità di esercizio della responsabilità viene invocata come se fosse la garanzia in sé di un agire con “vera responsabilità” da parte dell’impresa. In realtà, quando si lega l’etica d’impresa a un’idea di “compliance”, o meglio a una visione solo formale di “compliance”, si rischia di adagiarsi su una frontiera di impegno scontata: fare impresa mirando alla compliance intesa come pura osservazione delle norme non solo è ambiguo (rispettare le norme non dovrebbe essere qualcosa di scontato?), ma anche di potenzialmente negativo, perché può ingenerare un’autopercezione già di grande positività, e dunque far pensare a imprenditori, manager e professionisti di non essere tenuti allo sforzo particolare che questa stagione richiede.
Chiediamoci allora se il Sud rischi di diventare un concetto vittima di quelle riverniciature rituali che potremmo definire “Sud washing”, fatto di comode e opportunistiche citazioni
E allora, per dare uno spunto sul rapporto fra ruolo delle imprese e impegno per il Sud, cosa possiamo fare? Proviamo a fare un passo avanti, passando da una Csr nell’accezione formale di cui sopra all’idea di social commitment, un concetto che spinge a passare dalla visione della Csr a un impegno attivo dell’impresa, a qualcosa che non è dovuto e che ha una precisa onerosità (e non solo un carattere di non profittabilità). Tutto questo vale per il Sud, ma si è visto di recente al Sud come al Nord: le tante imprese che hanno fatto donazioni rilevanti nella fase acuta del Covid (penso a un’azienda correggese che conosco direttamente, che ha donato subito 100 mila euro alla locale Asl), o che hanno fermato alcune produzioni per mettersi a fare prodotti con i quali si sapeva non avrebbero fatto profitti (le aziende avanzate che hanno progettato e prodotto respiratori che mancavano, ma tanti altri casi), sono storie reali che non solo hanno dato un contributo decisivo in quel contesto pandemico, ma che hanno spinto su una frontiera più avanzata la cultura d’impresa italiana. Per non dire del movimento South Working, che ha riportato al Sud risorse umane pregiate, ma anche progetti e investimenti.
L’agire d’impresa emerso durante la pandemia (praticato in quei giorni da centinaia di imprese, e da qualche migliaio di manager e professionisti) ha dato l’idea che un’impresa adeguata a questi tempi difficili debba scegliere di mettere in atto azioni finora non comprese nel comportamento tipico di queste organizzazioni, e nell’impegno per il Sud vale lo stesso principio: certi esempi non vanno indicati in senso moralistico, ma paradigmatico-manageriale, perché dovrebbe diventare “normale” che un’azienda inserita in una comunità compia un passo avanti, e non solo la “compliance with” le norme formali. Tutto quanto ora detto viene e deve essere amplificato quando parliamo del nostro Sud, e dovremmo farlo con attenzione ancor maggiore per “i Sud” di tutto il mondo.
Qui si aprirebbero, anche solo fermandosi al “nostro” Sud, un numero tale di discorsi da ampliare che non sarebbe gestibile in queste poche righe, e che porterebbero anche il sottoscritto a fare “Sud washing”. Mi limito a suggerire un collegamento analogo che possiamo fare col concetto di Diversity & Inclusion, anch’esso molto trendy, al punto da rischiare di diventare social washing. Una scrittrice americana ha detto che la Diversity è come invitare tutti a una festa, ma che solo con l’invito effettivo a ballare, fatto a chiunque, la “festa” può dirsi riuscita: se impostiamo così le modalità delle nostre imprese, allora può dirsi che l’impegno inclusivo di esse diventa qualcosa di meno scontato e più credibile.
Peraltro, l’acronimo D&I si è di recente arricchito con la “E” di Equity (DE&I), che in questo caso non ha nulla a che fare con il concetto di patrimonio del private equity o simili, ma con il diritto di poter vedere valorizzate le proprie caratteristiche: perché ciò accada, però, serve che manager e imprenditori inizino a “vedere” le specificità delle singole persone che essi coordinano, e che capiscano che quelle specificità possono dar vita non solo a talenti, ma anche a problemi.
Proviamo ora a collegare quanto detto alle forme di Diversity che il nostro Sud esprime, che sono spesso “differenze” positive: non vorrei, per il fatto di tentare uno sforzo di chiarezza, risultare retorico o preda a mia volta del “Sud washing”, ma dobbiamo dire che ci sono centinaia di esperienze d’impresa straordinarie nel nostro Sud. Ciò è vero anche nel manifatturiero e nei settori technology intensive, e come Federmanager Academy abbiamo valorizzato nei webinar nostri e/o di Fondirigenti molte esperienze di manager, magari donne, magari imprenditrici: in questi casi la Diversity c’è, ma nel senso che loro sono più avanti dei manager delle aree più industrializzate.
Ci sono centinaia di esperienze d’impresa straordinarie nel nostro Sud. Ciò è vero anche nel manifatturiero e nei settori technology intensive
A questo punto si dovrebbe parlare del cantiere per il Sud che non solo Federmanager, ma anche Fondirigenti e 4.Manager so bene vogliono ampliare, un cantiere già aperto negli ultimi anni. E qui può saldarsi l’impegno di Federmanager Academy, nel limite dei nostri mezzi, continuando a fare alcune azioni concrete: abbiamo lavorato con una ventina di aziende del Sud, ma stiamo cercando di raggiungerne altre, e abbiamo aderito a un progetto in ambito Pnrr che prenderà l’avvio subito dopo l’estate, mirante a portare in Sicilia relazioni manageriali qualificate, aperte anche agli Usa. Ma lo faremo con una consapevolezza precisa: cercheremo di non cadere mai nel “Sud washing”.