Nuovi modelli

In molti settori, l’industria italiana è già leader mondiale per qualità, stile, design, creatività. Adesso servono il coraggio e la visione di investire in innovazione

Andrea Bonaccorsi, professore ordinario di Ingegneria gestionale presso l’università di Pisa

Ripensare le strategie aziendali, lavorando a modelli di business innovativi che sappiano sfruttare le potenzialità di crescita dei diversi contesti imprenditoriali. Ne parliamo con Andrea Bonaccorsi, professore ordinario di Ingegneria gestionale presso l’università di Pisa, vicepresidente di Gate 4.0. e tra i keynote speaker di “Cerchio di gravità permanente“, iniziativa strategica di Fondirigenti condotta da Federmanager con il supporto di Federmanager Academy, Manager Solutions e CDi Manager.

Le Pmi italiane esprimono spesso un grande potenziale, eppure l’orizzonte della scalabilità appare molte volte lontano. Quali sono le strategie per crescere?

Per decenni abbiamo discusso in Italia su vantaggi e svantaggi della piccola dimensione di impresa, alternando i periodi del “piccolo è bello” con i periodi critici del tipo “occorre crescere”, a giorni alterni a seconda del ciclo economico o politico. Un dibattito inconcludente. In realtà sappiamo che non esiste una risposta unica. La chiave non è la dimensione in sé, ma il potenziale di crescita, quella che noi definiamo “scalabilità“. Ora la scalabilità dipende strettamente dal modello di business.  Una Pmi manifatturiera che gioca la sua strategia sulla qualità del prodotto, ma poi produce a piccoli lotti, customizza il prodotto, non ha un brand forte, non è scalabile. Non ha senso chiederle di crescere, non è nelle sue corde. La software house che ha sviluppato una soluzione customizzata e la adatta ai diversi clienti non è scalabile. Non ha senso di chiederle di crescere. La chiave è quindi nella riflessione critica intorno al modello di business e alla decisione di riconfigurarlo e ridisegnarlo. Il punto è che le tecnologie digitali oggi consentono il ridisegno del modello di business, cosa che in passato era impossibile o accessibile solo alle grandi imprese. Ridisegnare il modello di business significa, usando parole poco eleganti ma utili, servitizzazione, produttizzazione, piattaformizzazione, innovazione sistematica.

La sostenibilità è un mantra del nostro tempo, ma poche aziende riescono a renderla anche un vantaggio competitivo. Come si può conciliare una crescita scalabile con obiettivi concreti di economia circolare?

Abbiamo introdotto la sostenibilità dal lato sbagliato, contando sulla rendicontazione, la famosa non financial disclosure. Ma la rendicontazione ha senso se viene accanto al cambiamento strategico. Altrimenti è un onere aggiuntivo o anche un esercizio di greenwashing. Ora però trasformare la sostenibilità in una strategia significa entrare dentro un percorso di riprogettazione dei prodotti e dei processi. Chi ha iniziato questo percorso ha oggi un vantaggio rispetto ai concorrenti perché ha conquistato la fascia di mercato più sensibile ai temi Esg e a partire da questa base può estendere la platea di clienti. È più facile che un cliente tradizionale accetti prodotti sostenibili che per un cliente già sensibilizzato tornare indietro. Quindi chi ha avuto l’intuizione strategica ora vince. Per gli altri la strada è ancora lunga ma va intrapresa subito.

Trasformare la sostenibilità in una strategia significa entrare dentro un percorso di riprogettazione dei prodotti e dei processi

Quanto conta oggi per una Pmi ripensare il design organizzativo, accogliendo competenze manageriali qualificate in tema di circolarità e sostenibilità?

La struttura segue la strategia, si insegna. In realtà funziona spesso nel senso opposto e in negativo, perché una struttura organizzativa obsoleta inibisce il cambiamento strategico. Gli esempi positivi che vedo sono quelli in cui inizialmente si possono anche creare ruoli manageriali speciali dedicati alla sostenibilità, ma poi questa diventa prassi condivisa e trasversale.

Altra leva fondamentale per rimanere competitivi è l’innovazione “a sistema”. Sotto questo profilo, come stanno oggi le imprese italiane?

Tutto quello che sa di sistema è ortogonale alle attitudini nazionali. Salvo poi ripetere nei convegni (altra attitudine nazionale) il mantra che “bisogna fare sistema”.  Ci sono profonde ragioni per cui in tutti i sistemi nazionali è difficile “fare sistema”: ricerca pubblica e imprese hanno diversi obiettivi, orizzonti temporali, sistemi di incentivi, elementi di identità, ruolo e carriera. Ci sono profonde ragioni istituzionali per cui in Italia non si sono sviluppate autonome istituzioni di confine o di intermediazione, come i Fraunhofer in Germania e le Tno in altri paesi. Per cui dobbiamo fare con quello che abbiamo. Io teorizzo che il nuovo modello di innovazione e trasferimento tecnologico è peer-to-peer, cioè da impresa (tecnologica, startup, Pmi innovativa) a impresa, con una intermediazione leggera, intelligente, digitale e veloce. Vedo in giro per l’Italia esperimenti promettenti.

Per concludere, a suo avviso, le opportunità aperte dai modelli circolari possono aprire la via anche a nuovi mercati inesplorati in cui le aziende italiane possano essere protagoniste?

Il giorno in cui le imprese italiane dei settori tradizionali del “Made in Italy” troveranno il modo di rendere circolari le filiere, innovando nell’End-of-life, nella gestione dei rifiuti, nella circolarità dei materiali e riusciranno a trasformare le filiere del tessile-abbigliamento, delle pelli-calzature-pelletteria, del legno-mobile-arredo, dell’oreficeria, della nautica, beh, nessuno riuscirà a batterle. Sono già leader mondiali per qualità, stile, design, creatività. Da decenni provano a imitarle in mezzo mondo, dagli Usa all’Asia, quasi sempre senza riuscirci. Chi altro deve introdurre circolarità e sostenibilità? E cosa accadrebbe se l’industria delle macchine utensili, l’altro grande settore esportatore italiano, decidesse di guidare la sostenibilità innovando su energia, materiali, cicli produttivi? Anche qui nessuno ci batterebbe. Gli innovatori partono prima degli altri. È rischioso, si può sbagliare, ma è l’unica cosa per cui valga la pena di fare impresa oggi. E chi deve rischiare, se non imprenditori (con i propri soldi) e manager (con i soldi degli azionisti)?

Ci sono profonde ragioni per cui in tutti i sistemi nazionali è difficile “fare sistema”: ricerca pubblica e imprese hanno diversi obiettivi, orizzonti temporali, sistemi di incentivi, elementi di identità, ruolo e carriera.

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