Professore, nell’annuale classifica delle università italiane elaborata dal Censis emerge un dato preoccupante: nell’anno accademico 2021-22 le immatricolazioni sono diminuite del 2,8% su base nazionale. Solo colpa delle crisi che stiamo attraversando o è un segnale di sfiducia dei giovani verso i livelli di studio più qualificato?
Per comprendere al meglio, bisogna partire innanzitutto da un dato demografico: in Italia ci sono meno giovani e quindi diminuisce progressivamente il numero degli iscritti alle università. C’è poi un dato di carattere più sociologico, perché i giovani oggi credono di meno alla formazione universitaria come vettore in grado di far compiere quel salto di qualità, in termini di posizione sociale ed economica, che le precedenti generazioni hanno invece compiuto. Si sta affievolendo quindi quella motivazione profonda a intraprendere convintamente gli studi universitari. Oggi tanti ragazzi e ragazze preferiscono provare a lavorare prima di un eventuale ciclo universitario, per cercare di avere una prospettiva di vita immediata.
In una sua recente intervista, ragionando sull’attuale fase del Paese ha citato Paolo VI: «Occorre tornare a pensare.» Che cosa significa questo, soprattutto per un giovane? Le scuole e le università sono ancora i luoghi in cui si impara a pensare?
Per me lo sono stati, non c’è dubbio. Come lo sono stati per tutte le generazioni che proprio grazie a professori e libri di grande valore hanno imparato a pensare. Oggi i giovani si formano culturalmente anche attraverso altre fonti, basti pensare all’impatto delle piattaforme streaming e dei social sulla loro quotidianità. Ma non bisogna rinunciare alla complessità, a quelle letture che stimolano il cervello a sviluppare un pensiero articolato. Certamente, leggere implica uno “sforzo”, a cui forse oggi ci si sta gradualmente disabituando. La tecnologia garantisce a tutti grandi opportunità, ma in parte fa perdere il contatto con il docente, che è la figura in grado di provocare il singolo ad andare in profondità.
Anche perché, senza una piena formazione che alleni e stimoli il pensiero, è molto difficile progettare il proprio futuro professionale o, per un manager, l’avvenire dell’azienda che è chiamato a gestire. Lei ha più volte affermato che oggi si avverte fortemente la mancanza di figure con capacità progettuale. Cosa intende?
Per quanto riguarda l’ambito industriale, mi riferisco a un’accezione particolare di capacità progettuale. Le figure aziendali, pensiamo innanzitutto ai manager, si segnalano per il loro carattere gestionale, devono quindi conoscere in profondità le realtà in cui operano. Io non sono mai stato un appassionato della nostalgia per i cosiddetti “manager visionari”. Sì, ci sono stati e ci sono, ma non sono molti. La stragrande maggioranza dei manager deve innanzitutto comprendere appieno il proprio settore di riferimento e le dinamiche che coinvolgono l’azienda in cui lavora. Marchionne, solo per citare un esempio conosciuto da tutti, ha rappresentato una personalità capace di progettare lo sviluppo della sua azienda lavorando costantemente per conoscerla a fondo e per incidere nel settore automobilistico. Ecco, questo vuol dire avere “capacità progettuale” per un manager: comprendere che ogni giorno si sta costruendo il futuro.
Ci sono stati e ci sono manager visionari, ma non sono molti. La stragrande maggioranza dei manager deve innanzitutto comprendere appieno il proprio settore di riferimento e le dinamiche che coinvolgono l’azienda in cui lavora
Il “dirimpettaio” della formazione è il lavoro. Un lavoro che oggi diventa sempre più agile, in forza dell’accelerazione impressa dalle tecnologie, ben al di là dell’emergenza pandemica. Tuttavia, assistiamo anche a fenomeni spiazzanti, come quello della “Great Resignation”. Che cosa succede al lavoro oggi?
In premessa, occorre la necessità di ripensare il tradizionale perimetro del “lavoro comandato”: il classico lavoro salariato del dipendente a cui viene detto cosa debba fare in concreto. Bisogna quindi superare l’equivoco di uno smart working che semplicemente equivalga a un lavoro comandato a distanza. Se così è, lo smart working non può avere la vitalità di un lavoro nuovo, pensato ancor prima che svolto in maniera totalmente diversa dal passato. Ci dobbiamo tutti rapportare a una sfida che riguarda proprio il cambiamento del modo di intendere il lavoro, per l’individuo e per la sua organizzazione di riferimento, con aspetti positivi e criticità da analizzare con attenzione. Per quanto riguarda il fenomeno delle “grandi dimissioni”, bisogna intanto considerare un fattore psicologico rilevante: soprattutto dopo gli anni più intensi dell’emergenza pandemica, si avverte un’insofferenza diffusa a mantenere lo stesso lavoro per quarant’anni. La voglia di fare altro si percepisce un po’ in tutti gli ambienti. Se poi il lavoro non viene vissuto come un momento fondamentale per apportare il proprio contributo e per esprimere una concreta possibilità di incidere, ecco che si opta per un’uscita dal contesto lavorativo. Anche perché sta diventando sempre più massiccia la protezione sociale in favore di chi non è occupato, in termini di interventi di welfare e di stabilità reddituale.