Riccardo Di Stefano, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria
L’innovazione è uno dei fattori chiave per la competitività. Proporre sul mercato prodotti e servizi innovativi, in grado di tenere testa ai competitor delle economie più avanzate al mondo è un elemento chiave per la crescita delle imprese.
Investire in ricerca e innovazione però è diventato sempre più complesso, specialmente negli ultimi anni in cui le imprese hanno dovuto fare i conti con pandemia prima e crisi geopolitiche poi. Innovare in house richiede investimenti ingenti sia in termini di tempo che di risorse, per non parlare del fattore rischio.
Per questo le imprese guardano con sempre maggiore interesse a un modello di innovazione “aperto”, detto anche “Open Innovation”, in cui imprenditori e manager si rivolgono all’ecosistema dell’innovazione, startup, scaleup, microimprese, per riuscire a innovare il proprio business.
Non solo, l’Open Innovation sta diventando una risposta anche per affrontare Industria 5.0 e la doppia transizione in maniera collaborativa e mettendo al centro le persone e le loro competenze. Ad esempio, l’innovazione aperta può rendere più semplice l’integrazione in azienda di nuove tecnologie, come l’AI per il risparmio energetico, usufruendo di servizi o prodotti forniti da altre imprese innovative come le startup.
Questa, a mio avviso, è la via italiana all’innovazione che dobbiamo percorrere: favorire l’incontro tra domanda e offerta di innovazione per rendere le nostre imprese più digital e green, in poche parole più competitive.
Per farlo dobbiamo innanzitutto dare visibilità ai diversi modelli e soluzioni di innovazione aperta, spiegarne i punti forza. Questo è uno degli obiettivi che mi sono posto come delegato di Confindustria per l’education e l’open innovation.
Il concetto di “Open Innovation” non è certamente nuovo: coniato da Henry Chesbrough nel 2003, il termine rappresenta una intuizione secondo cui nessuna azienda ormai può pensare di avere le menti più brillanti unicamente all’interno della propria organizzazione, e quindi, per mantenere un vantaggio competitivo, deve raccogliere idee sia internamente sia esternamente aprendosi quindi ad altre organizzazioni.
Dal 2003 a oggi, le imprese che hanno adottato un modello di innovazione aperto sono cresciute: secondo un’indagine realizzata dalla School of management del Politecnico di Milano, il mercato dei servizi di open innovation in Italia vale circa 700 milioni di euro. E sempre secondo il Politecnico si tratta di una stima conservativa che non comprende tutti gli attori dell’ecosistema coinvolti. I principali attori sono corporate innovation hub, società di consulenza, uffici di trasferimento tecnologico, competence center, digital innovation hub e società professionali per la proprietà intellettuale, che pesano circa per l’85% del valore di mercato.
Secondo un’indagine realizzata dalla School of management del Politecnico di Milano, il mercato dei servizi di Open Innovation in Italia vale circa 700 milioni di euro
Parte di questi fanno già parte del sistema Confindustria e mettono in contatto grandi corporate, Pmi e startup in una logica win/win. Possiamo però fare di più e farlo meglio, puntando innanzitutto a far conoscere alle nostre imprese i più recenti ed efficaci modelli di innovazione aperta.
Modelli come il corporate venture capital o il corporate venture clienting rappresentano un’evoluzione del rapporto tra impresa e startup. Ad esempio, se in un primo momento le imprese puntavano sulle call for startup per cercare esternamente soluzioni innovative a problematiche aziendali, oggi guardano con maggiore interesse a progetti di collaborazione sempre più strutturati, industry driven e PoC oriented. Parliamo di relazioni più serrate tra l’impresa e la startup in una logica di co-design di un prodotto o di un servizio, frutto ad esempio del know verticale della startup e della capacità di calarlo a terra dell’azienda.
La diffusione di buone pratiche e casi di successo è utile non solo per le imprese ma anche per le startup che non sempre guardano a partner industriali per rendere concreti i propri progetti innovativi. Secondo una ricerca condotta dai Giovani Imprenditori di Confindustria nell’ambito del progetto Talents – GI startup program, oltre il 70% delle startup oggi è focalizzato sulla raccolta di capitali piuttosto che sul cercare una partnership con le imprese. Le due cose in realtà non si escludono, al contrario possono rappresentare obiettivi su cui puntare in base allo stadio evolutivo e al modello di business della startup.
Abbiamo quindi davanti un vero e proprio processo culturale sul quale Confindustria può fare la differenza, creando sul territorio occasioni di incontro e divulgazione, mettendo insieme i migliori player dell’ecosistema, attirando startup e nuove imprese.
Ma questo non basta. L’Italia ha sicuramente un potenziale innovativo e imprenditoriale inespresso, dobbiamo quindi creare un ecosistema più solido e soprattutto più favorevole alla nascita e crescita di nuove imprese. Servono partnership pubblico-private; serve uno snellimento delle procedure di avviamento di nuove imprese; servono misure incentivanti per le imprese che vogliono intraprendere percorsi di Open Innovation; serve aumentare la capacità d’investimento dei fondi, incentivando investimenti da parte di compagnie assicurative, casse di previdenza, fondi pensione, e soprattutto investitori istituzionali come Cdp Venture Capital.
L’Italia ha sicuramente un potenziale innovativo e imprenditoriale inespresso, dobbiamo quindi creare un ecosistema più solido e soprattutto più favorevole alla nascita e crescita di nuove imprese
In altre parole, serve più coraggio e anche più commitment da parte delle istituzioni. Recentemente ci aspettavamo uno Startup Act 2.0 da parte del Governo che avrebbe dovuto dare nuovo slancio all’ecosistema dell’innovazione e in generale nuova linfa alla legislazione sulle startup che risale al 2012. Ad oggi abbiamo visto solo alcuni articoli all’interno del Ddl Concorrenza che non sono riusciti a dare quella marcia in più all’ecosistema e soprattutto non hanno premiato le nuove imprese con potenziale innovativo, di crescita e scalabilità.
C’è ancora parecchio da lavorare quindi, ma con la doppia transizione che bussa alla porta di ogni impresa, con una competizione nei mercati internazionali sempre più dura, non possiamo permetterci di ipotecare il potenziale competitivo e innovativo della nostra economia.