Maurizio Casasco: lavoro, bene comune

Di fronte a una mutazione dei mercati e dei sistemi produttivi così profonda da definirla «genetica», Maurizio Casasco, alla guida di Confapi dal 2012, invoca «certezze e stabilità». 

La soluzione non verrà dalla moltiplicazione dei contratti di lavoro, ma da procedure «chiare e corrette» condivise tra le Parti sociali.

Questo contribuirebbe a tutelare il cuore produttivo dell’Italia. «Il lavoro è bene comune», afferma, mostrando la tenacia tipica di chi ha condotto molte trattative sindacali.

«Noi ci crediamo e stiamo rilanciando la bilateralità con un approccio che supera gli steccati e si pone obiettivi concreti per una crescita comune».

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Presidente, com’è la Legge di Bilancio 2017 vista sotto la lente delle Pmi?

Alcune misure contenute nella Legge di Bilancio vanno nella giusta direzione e, insieme al Piano Industria 4.0 del ministero dello Sviluppo economico, interessano direttamente le Pmi. Mi riferisco, per esempio, alla riduzione dell’Ires dal 27,5% al 24%, al super-ammortamento per gli investimenti in beni strumentali nuovi, impianti e macchinari e all’iper-ammortamento, attraverso l’incremento dell’aliquota fino ad un soglia del 250%, per gli investimenti privati su beni funzionali alla digitalizzazione delle imprese e per le tecnologie innovative. Credo, però, che dobbiamo metterci al lavoro su un piano industriale globale e che dobbiamo puntare con incisività sull’innovazione di prodotto.

È questo che ha detto al ministro Calenda, quando vi siete incontrati lo scorso settembre?

In quell’occasione ho ribadito al ministro che noi, in Europa, dobbiamo puntare sull’innovazione di prodotto, collaborando con le università e i centri di ricerca di eccellenza. Noi abbiamo la storia e l’expertise per inventarci prodotti innovativi e per fronteggiare la concorrenza di Stati e Continenti più giovani che, anche grazie a tutele del lavoro diverse, per non dire inesistenti, si rivelano imbattibili sul piano della velocità produttiva.

Ho sottolineato anche che, disattendendo la Direttiva europea che fissa in 90 giorni il termine massimo per il pagamento anche tra privati, viene inficiata la capacità competitiva delle nostre Pmi. Dobbiamo intervenire anche qui con tempi certi. Ci stiamo lavorando a ogni livello.

Iniziative come il Ttip, che il governo italiano sostiene, ci aiutano davvero a essere competitivi?

Su questo la nostra posizione è netta: diciamo ‘no’ non al Ttip tout court, ma ad alcuni punti rilevanti di questo trattato per il libero mercato tra Usa ed Europa che vedrebbero penalizzare le nostre industrie e i loro prodotti di qualità.

Non giova, poi, la scarsa o nulla capacità di porsi sul mercato digitale che è alla base del fallimento di molte aziende. Come si colma questo “gap” di innovazione?

Sono d’accordo con il presidente della Confederazione delle Pmi europee Cea-Pme, Mario Ohoven, quando dice che è necessario che la digitalizzazione venga spiegata alle aziende in maniera semplice e che si facciano vedere loro, in una forma concreta, i benefici immediati. Credo che sia necessario creare le condizioni “ambientali”, l’humus che favorisca il prosperare di aziende innovative.

I “fenomeni” californiani della Sylicon Valley, ad esempio, sono nati perché il mondo che avevano attorno, fatto di infrastrutture, ricerca, cultura, li ha favoriti. Noi dobbiamo ricreare questo palcoscenico, poi si vedrà che gli attori eccellenti avranno modo di dispiegare il loro talento.

Dunque, considerando gli ostacoli culturali che pure sussistono, su cosa bisogna puntare?

Formazione e conoscenza. Mi riferisco soprattutto ai più giovani: per essere competitivi e preparati è necessario una buona formazione dell’ambiente produttivo e una conoscenza diretta del mondo del lavoro e delle imprese che sono in continua evoluzione. La formazione riguarda il singolo individuo, ma anche l’intero contesto aziendale. La conoscenza delle varie discipline aziendali, economiche, giuridiche, matematiche, ma aggiungo anche del mondo, dei temi e dei problemi che caratterizzano i nostri tempi, rappresenta una condizione indispensabile per farsi valere ad alti livelli.

Nell’ambito delle relazioni industriali, Confapi e Federmanager stanno sperimentando nuovi modelli. Nell’ultimo CCNL è comparsa la figura del quadro apicale, e oggi state lavorando per un riconoscimento del “manager atipico” o “professional”. Per crescere, serve una maggiore flessibilità anche a livello manageriale? 

Parliamo di qualcosa che è già presente, ma che noi vogliamo arricchire con forme di sviluppo e tutela del lavoro professionale per ridisegnare e modernizzare l’assetto organizzativo delle oltre 83mila Pmi industriali che applicato i nostri contratti.

La nostra è una Confederazione che vanta 50 sedi territoriali, 13 unioni nazionali, 3 associazioni nazionali di categoria a cui si aggiungono 2 gruppi di interesse. Insieme a Federmanager stiamo lavorando per rafforzare la managerializzazione nelle Pmi attraverso la creazione di figure manageriali costruite “su misura”. Lo facciamo anche attraverso la Fondazione Idi, l’Istituto dei Dirigenti Italiani, che dal 1995 riveste un ruolo centrale nell’aggiornamento degli standard professionali dei dirigenti delle Pmi e che è il tramite attraverso il quale Confapi e Federmanager studiano, propongono e realizzano percorsi di formazione e di sviluppo professionale. Per dirla in poche parole, noi di Confapi e di Federmanager siamo anticipatori, non ci aggrappiamo al passato, ma lavoriamo per ridefinire la cornice, e anche i tasselli, di un intero sistema che deve essere in grado di raccogliere le sfide e vincerle.

Tra le sfide c’è certamente il superamento del mantra tutto italiano “Piccolo è bello”. Esiste una misura italiana del fare impresa?

Il freno agli investimenti non deriva dalla ridotta dimensione delle aziende. Le nostre PMI, dal Dopoguerra ad oggi, hanno contribuito con i loro investimenti a portare l’Italia tra le sette potenze industriali del pianeta, e ancor oggi contendono faticosamente la leadership europea alla Germania nel settore manifatturiero. Siamo una, se non due, delle gambe su cui poggia l’economia italiana da decenni.  Il problema, semmai, è un’imposizione fiscale sulle Pmi del 68.3%, l’incertezza e i tempi della giustizia italiana, il percorso ad ostacoli che è ogni procedimento amministrativo. Per non parlare dei costi e della scarsa flessibilità del lavoro nonché della difficoltà di accedere al credito per gli investimenti.

Chiediamo da anni una “franchigia” per gli adempimenti normativi per le aziende di dimensioni più piccole. La verità è che gli imprenditori italiani governano le nostre Pmi con uno spirito che va oltre la convenienza economica, perché tutti i vincoli che ho elencato li farebbero fuggire a gambe levate.

L’altra particolarità delle nostre Pmi è rappresentata dal fatto che, oltre alla proprietà, anche il management proviene spesso dalla cerchia familiare. È d’accordo con chi considera questa situazione un intralcio alla competitività del Paese?

Credo non si debba generalizzare. Esistono esempi nella storia del nostro Paese di famiglie di industriali grandi e piccoli che sono stati capaci di crescere restando al passo, o addirittura in alcuni casi, anticipando i tempi. Si tratta di avere il coraggio, sulla base di un vero e proprio piano industriale che da troppi anni manca nel nostro Paese, di investire in innovazione. A quel punto la realtà e la capacità di competere sceglieranno i leader, siano essi i manager interni o quelli della cerchia familiare.

Dina Galano, giornalista, Vice direttore Progetto Manager