La soddisfazione esistenziale dei nostri connazionali è rimasta per decenni pressoché stabile, anche perché quasi insensibile ai cicli economici. Inoltre è restata sempre significativa, attestandosi attorno al valore 7.1 in una scala 1-10.
Ma improvvisamente nel 2011 si è registrato un drammatico calo, per il combinato disposto della più grave crisi economico-sociale dal dopoguerra e della perdita delle speranze circa il futuro proprio e del Paese. Oggi la felicità dichiarata dai 18-65enni si colloca in media a 6.0, senza che si sia notata alcuna ripresa significativa negli ultimi cinque anni: come segnala l’ultima (inedita) indagine demoscopica realizzata per Sòno da AstraRicerche.
E i manager italiani? Da sempre il loro grado di soddisfazione esistenziale è un po’ maggiore della media della popolazione. Il che avviene anche nella più recente rilevazione, la quale segnala un dato medio pari a 6.4: in dettaglio, un terzo dei dirigenti si dice infelice, quasi la metà moderatamente felice, un po’ meno di un quinto assai felice.
Emerge, però, un grave problema: in gran parte la soddisfazione esistenziale dei dirigenti e dei quadri superiori NON ha a che fare con il ruolo e la sua gestione, con il ‘mestiere’ e con le condizioni in cui esso viene svolto. In altre parole, in Italia i manager appaiono più felici di molti altri gruppi socio-professionali non in quanto manager ma per altre caratteristiche della loro vita, quali il livello culturale, lo stato di salute, il reddito netto, il tasso di risparmio evoluto, l’ampiezza e la qualità delle relazioni interpersonali, ecc…
In effetti, i dirigenti e i quadri superiori giudicano positivamente il proprio ruolo, che amano in due casi su tre, ma sostengono che il loro concreto lavoro di ogni giorno è reso assai arduo e spesso ‘impossibile’ da drammatici fattori frenanti o addirittura inibenti.
Tali fattori sono di tipo diverso. In parte attengono alle responsabilità loro attribuite: a seconda dei casi, esorbitanti e spesso improprie o – all’opposto – troppo limitate o non chiare. Gioca poi la carenza di razionalità organizzativa: sia per l’incompetenza, le interferenze, l’erraticità comportamentale di tanti imprenditori (specie piccoli e medi), sia per la discrasia tra gli organigrammi formali e quelli reali. Ma vengono citate pure le frequenti ‘guerre per bande’ in varie aziende (specialmente medio-grandi e grandi), oltre alle crisi di mercato e alle risposte frequentemente improvvide a tali crisi.
C’è poi chi lamenta le carenze quali-quantitative delle risorse umane, aggravate a volte da certo sindacalismo corporativo e dalle intrusioni anti-meritocratiche della cattiva politica e della stessa criminalità organizzata (specie a Roma e al sud); e così via. Un punto-chiave va sottolineato: è anzitutto il ‘clima’ aziendale a indurre infelicità nei manager, quando (troppo spesso) esso risulta connotato da uno specifico mix, quello costituito da tre impossibilità: di motivare i propri collaboratori e l’intero corpo aziendale; di creare comunità professionali a un tempo umanamente ‘calde’, coese e orientate al risultato; di offrire strategie e politiche trasparenti e condivise.
Trova qui conferma una tesi ‘classica’: la soddisfazione esistenziale è legata – più che ai soldi, al potere, allo status – alla qualità dei rapporti umani, al gioco di squadra, al comune impegno per il raggiungimento di una meta condivisa (non al suo conseguimento ma alla tensione verso l’obiettivo), alla forza motivante di un progetto (produttore di senso e fondato su valori). In sintesi: nel Bel Paese i manager sono spesso contenti di esserlo ma non di come possono muoversi. Certo, il 6% afferma “vivo una vita che non è la mia” e il 10% aggiunge “mi sento contraddittorio, in conflitto con me stesso”, talché il 13% si racconta “incapace di decidere cosa fare oggi e in futuro”.
Ma, a parte questa minoranza, il grosso non appare de-identificato: epperò raramente si dice pienamente realizzato. E, allora, che fare? Da un lato, le imprese dovrebbero porsi l’obiettivo di diminuire gli ostacoli al perseguimento della felicità dei propri dirigenti, quadri, professional, stipendiati e salariati: non (o non solo) per ‘bontà’ ma per ragioni di efficienza, produttività, creatività. E qui gli strumenti a disposizione dell’impresa sono diversi e in larga parte già sperimentati.
Dall’altro lato, si può lavorare sulla soddisfazione esistenziale del dirigente come persona, usando i nuovi ‘tools’ che la ricerca e l’esperienza hanno messo a disposizione negli ultimi anni (un esempio si può leggere su www.sono-tuning.it). Di tali ‘arnesi’ mi sto occupando dopo una vita passata nel mondo delle indagini sociali e di marketing. Sono state proprio le numerose ricerche che ho condotto negli ultimi quindici anni a confermare la tesi di Abraham Maslow, il grande psico-sociologo americano noto da noi quasi solo per la teoria e la piramide delle motivazioni.
In un mondo in cui tutto viene medicalizzato, Maslow ha proposto un approccio positivo volto alla maggioranza dei cittadini (e dei dirigenti) privi di significativi problemi psicologici e – proprio perciò – in grado di individuare la propria strada verso una maggior soddisfazione esistenziale e il proprio sviluppo autorealizzativo. Ed è interessante notare che esistono ormai servizi rivolti sia ai singoli individui, sia a gruppi aziendali (in particolare ‘top’) atti – con un approccio scientifico e l’utilizzo di un’ampia batteria di test originali – a migliorare il proprio bilancio esistenziale, anche in condizioni ambientali non favorevoli.
* Presidente di Sòno