3950

Manager e artisti in conversazione

Un progetto, DAC- denominazione artistica condivisa, e un metodo, la mediazione. Dalla voce di Dora Stiefelmeier, il racconto dei tavoli nati per collegare i mondi dell’impresa e dell’arte. Perché ciascuno possiede il suo lato visionario

Incontro Dora Stiefelmeier nella libreria Marini, ristoro gentile al centro del Pigneto, uno dei quartieri più vivaci della scena artistica della Capitale. È il nostro secondo appuntamento, l’atmosfera si fa subito familiare. Il merito è in parte di ciò che ci circonda: libri ed edizioni rare che attraversano la storia della fotografia sono d’ispirazione. È merito soprattutto di Stiefelmeier che, oltre ad aver gestito la famosa galleria d’arte di e con Mario Pieroni, si occupa da sempre di mediazione artistica. Parliamo di Zerynthia, di RAMradioartemobile e dei tavoli di cooperazione tra aziende e artisti in giro per l’Europa.

Dora Stiefelmeier, gallerista e mediatrice artistica, con Adele Marini, titolare della Libreria Marini

Soprattutto dei tavoli, in verità. Il progetto si chiamava DAC – Denominazione artistica condivisa ed è durato cinque anni. «Ogni esperienza deve avere un inizio e una fine. Dopo più di venti incontri, non c’era più bisogno di suggerire, la realtà aveva assorbito il messaggio», spiega Stiefelmeier.

Quale era lo scopo di far sedere gli uni accanto agli altri, mischiati alla buona, artisti eclettici dalla personalità acuta accanto a imprenditori e manager tutto business e risultati? Provo a immaginare il tavolo alto, con le gambe lunghissime, oltre 3 metri di verticalità, realizzato per l’incontro di Milano da Luca Vitone, attorno al quale sono seduti a mezz’aria l’artista e l’imprenditore, la creatività e l’azione.

«Il nocciolo del problema era lì, nella comunicazione tra i due mondi», rivela Stiefelmeier. «Il manager abituato a produrre, a lavorare. L’artista con le proprie ritrosie verso il mondo produttivo, geloso del grado di libertà di cui è forte, e che paga anche, che gli fa sbattere il muso».

«Avevo creato subito un marchio DAC senza però volerlo strutturare. L’idea di realizzare “un club mobile” è piaciuta tantissimo. Così abbiamo organizzato incontri pubblici da Alghero fino a Bolzano, il primo a Roma, poi in Olanda, Francia».

Continua. «Volevamo giocare il nostro ruolo e mediare tra artisti e imprenditori: sapevamo che avevano molto in comune, ma anche che ubbidivano a logiche che non si erano mai incontrate prima. Non volevamo realizzare alcunché di pratico. Volevamo che trovassero un linguaggio comune».

Così la ricerca di un linguaggio comune richiama personaggi come Rainer Ganahl, Chiara Parisi, Gianfranco Baruchello, Fabrice Hyber, Yona friedman con Jean-Baptiste Decavèle, Benjamin Sabatier, Nico Dockx. Dall’altro lato trovano posto Marcello Zaccagnini, Alessia Antinori, Roberto Crivellini, Antonio Presti, Luca Bonato, Giordano Riello.

«L’artista ha una capacità figurale che può contribuire a cambiare le regole», dice la mediatrice. «Se l’economia porta alla semplificazione, ecco, esiste un’altra legge, che è quella della natura, che insegna l’opposto. Che la semplificazione fa morire e la diversità invece è la garanzia della sopravvivenza».

Alle volte il dialogo non ha funzionato. In altri casi i tavoli hanno generato progetti concreti.

«Noi che apparteniamo all’arte siamo dalla parte della complessità: l’artista non ti risolve il problema, lo ingigantisce, te ne pone altri dieci. Però se tu imprenditore lo prendi come uno stimolo, come sosteneva Jacorossi, puoi rinnovarti».

Stiefelmeier racconta, ad esempio, di come ha contribuito, “mediando”, a far nascere l’opera di Friedman con Decavèle che campeggia sulle colline friulane di Rosazzo. Una struttura di ferro a cielo aperto in cui architettura e arte si fondono nel punto esatto in cui, cent’anni prima, Livio Felluga aveva avviato la sua impresa viticola, oggi tra le più prestigiose. «Un imprenditore che aveva avuto una visione artistica. Sia lui sia l’artista sono stati due visionari».

Perciò la missione è anche quella di «tirare fuori dal manager il suo lato visionario. Ma non è una cosa che si può avere subito, a comando, non basta l’organizzazione. L’arte può aiutare il manager nella visione, l’execution manageriale può dare concretezza all’artista».

Noi siamo dalla parte della complessità: l’artista non ti risolve il problema, lo ingigantisce. Però se tu imprenditore lo prendi come uno stimolo, come sosteneva Jacorossi, puoi rinnovarti

C’è stato chi come Daniele Puppi, contraddistinto da una violenza di proposizione, è rimasto affascinato dall’esperienza di DAC. «Voi sbagliate a pensare che noi abbiamo la testa tra le nuvole, noi abbiamo i piedi tra le nuvole. Con la testa guardiamo la realtà con molta precisione», pare abbia detto ai presenti.

Il mondo dell’impresa si è aperto alla contaminazione. Niente che assomigli all’uso del mecenate, alla finanza che investe nell’arte come bene rifugio, nulla di più lontano dal marketing aziendale. «L’arte utilizzata in forma di sponsorizzazione tradizionale», avverte Stiefelmeier, «ha sempre lasciato delusi per primi gli sponsor stessi. Il risultato non si misura con l’esposizione di un brand. È molto più prezioso il modo con cui l’arte cambia la mente».

«Pistoletto diceva che l’artista è uno sponsor di idee. Ancora prima di fare un prodotto, esegue un’azione immateriale ed è questo che restituisce valore e che le imprese hanno apprezzato».

< Articolo Precedente Articolo Successivo >