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La tradizione di innovare

Una donna che ha guidato, negli anni, lo sviluppo di una storica impresa meridionale. Progetto Manager intervista “Lady liquirizia”, Pina Amarelli

Nonna in carriera, si definisce tra l’ironico e il minimalista. Ma Pina Amarelli è Cavaliere del lavoro (prima donna a esserlo in Calabria).

Napoletana di origine, calabrese di adozione: 76 anni avvolti in un tailleur gessato dalle linee morbide, 2 figli, 4 nipoti (tutte femmine), 52 anni di matrimonio con Francesco (figlio del barone Amarelli), conosciuto a Napoli all’università.

Una voce sulla Treccani, un francobollo delle Poste per celebrare il Museo della Liquirizia “Giorgio Amarelli”, un archivio familiare dichiarato d’interesse storico dal ministero dei Beni culturali e un libro appena uscito per raccontare la storia di Lady liquirizia, come spesso la chiamano sui giornali.

Oltre 60 premi ricevuti e una collezione di incarichi in Cda (incluse le banche e ben prima che la legge sulla parità di genere introducesse l’obbligo di avere anche le donne). Un vessillo della leadership femminile in un’epoca e una regione dove non era così comune il binomio donne e impresa.

Partiamo dal nome da ragazza, Giuseppina Mengano. Sacrificato alla “ragion aziendale” con buona pace del femminismo?

In famiglia mi hanno sempre chiamata Pina e quando mi sono sposata io negli anni ‘60 prendere il cognome del marito era la legge, non una scelta. Poi dopo che mi hanno conosciuto tutti così era difficile cambiare. Ma quando sono entrata in azienda sicuramente mi è tornato utile e ho sfruttato la cosa.

L’università, l’abilitazione ad avvocato e l’insegnamento per poi ritrovarsi a rivoluzionare comunicazione e packaging delle liquirizie.

Mi iscrissi nel 1963 insieme ad altre amiche (una poi diventata la vice di Falcone). Era trasgressivo farlo perché volevamo entrare in magistratura e le donne non potevano, si diceva che non avessero equilibrio. La legge arrivò un anno dopo.

Dalle radici del diritto a quelle della liquirizia.

Non subito. Il patto con mio marito era di vivere a Napoli. A ottobre ci siamo sposati, a novembre eravamo in Calabria nel centro storico di Rossano. Rimasi scioccata. Venivano a farti visita per vedere chi era la bestia rara pescata dal rampollo del barone. Stavo sempre chiusa dentro. Una mattina sgattaiolai fuori e quando lo scoprì mio suocero mi chiese che necessità avessi e che potevo mandare il personale. Ma io volevo solo vedere la città con gli occhi miei. E lui era di larghissime vedute. Intanto continuavo con l’università, ma mi aveva incuriosito la storia della famiglia e l’archivio.

La scintilla era scoccata.

Mio cognato Giorgio aveva rivoluzionato il marketing, ma le scatoline di cartone non mi convincevano e lo dissi. Viene maledetto il momento in cui le hai comprate le liquirizie perché nella borsa delle donne si aprono…

Un’intuizione.

In realtà è di un’altra Giuseppina Amarelli che aveva studiato diritto… e nel 1919 aveva fatto delle scatolette di metallo. Ne abbiamo riprodotto un esemplare e visto il successo l’abbiamo mantenuta. Quando mio cognato muore a 48 anni, mio suocero si appoggia a me. Facendo la comunicazione conoscevo più degli altri l’azienda. A oltre 80 anni per il signor barone non era proprio normale mettersi una donna al fianco. Ma fu un elemento dirompente di successo. Due aspetti sfavorevoli, essere donna e in Calabria, divennero il motivo per finire sui giornali insieme all’innovazione in azienda.

Durante l’Expo a Milano è stata esposta anche una sua statuetta, tra i supereroi della sostenibilità.

“La Barbie della nonna” hanno subito commentato le mie nipoti che forse si aspettavano una statua di dimensioni maggiori, quando hanno visto la copia nel nostro museo.

È stata anche scelta da Chanel tra le 12 ambasciatrici italiane della maison francese.

Ne sono molto orgogliosa, un riconoscimento per chi ha saputo coniugare eleganza con una vita dinamica, un’eleganza non di maniera.

L’incarico più difficile?

Quello in Banca regionale dello sviluppo. Un istituto piccolo e in difficoltà già prima del Covid. Ho cercato in tutti i modi di risanarla e forse ci siamo riusciti.

Un ricordo negativo legato al lavoro?

Nessuno. Mi piace circondarmi di collaboratori competenti e con le carte in regola perché ti agevola. Poi cerco di pensare positivo.

A quale tra gli oltre 60 premi tiene di più?

La Mela d’oro della Fondazione Bellisario e il premio Minerva, una spilla d’oro disegnata da Guttuso.

Tra i tanti incarichi ricoperti, quale le ha dato più soddisfazione?

Questo di fine carriera, come Presidente del Comitato per gli anniversari presso la Presidenza del Consiglio. Una valenza importantissima perché gli anniversari li intendiamo nella dimensione partecipativa delle nuove generazioni. Fu Ciampi a crearlo e presiederlo. Mi porta via molto tempo, ma imparo tanto per la varietà degli argomenti: dalla mafia ai militari, dall’arte alla musica.

Quale il più tosto?

La gestione della banca, per la quantità e complessità delle normative anche internazionali.

Mi piace circondarmi di collaboratori competenti e con le carte in regola, perché ti agevola

Esiste una leadership femminile?

Saper essere uguali senza prevaricare mai. Noi donne ne siamo capaci. Primus inter pares, come dicevano i romani. Comprendere bene le esigenze e la psicologia per stabilire un rapporto con i collaboratori che non sia solo di lavoro. Nelle aziende familiari anche grandi spesso è così.

Problemi con il maschilismo?

Ero in partenza per New York e mi chiama Bassolino che doveva urgentemente rinnovare il Cda dell’azienda dei trasporti pubblici di Napoli: “Ho bisogno di persone al di sopra di ogni sospetto”. Ero l’unica donna. Feci capire subito agli altri: sbagliate a pensare che io sia una signora di buona famiglia abituata a fare il tè. Sono rimasta 11 anni a gestire le relazioni sindacali e abbiamo fatto anche il primo concorso con autisti donne.

Come si fronteggiano le crisi?

Ne abbiamo viste di tutti i colori, passando dal 1700 al terzo millennio. Dalla concorrenza degli americani agli ingenui timori del millenium bug. Poi la crisi dei subprime. Ora il Covid-19 e la guerra. Abbiamo potenziato l’e-commerce che per fortuna già avevamo altrimenti con i bar chiusi non avremmo venduto nulla. Ma abbiamo il problema del costo alle stelle di gas, energia e della carta per le confezioni.

Si dice che la prima generazione crea, la seconda consolida e la terza distrugge. Qui siamo arrivati alla tredicesima, qual è il segreto?

La preparazione. Noi abbiamo imparato sul campo. Io ero un’abusiva del settore, ma la laurea in giurisprudenza ti abitua a ragionare. Nel caso della gestione di aziende familiari devi stare attento a non farti prendere dal familismo. Se non c’è nessuno all’altezza, meglio cercare un valido manager all’esterno.

Un consiglio alle nuove generazioni di manager?  

Avere un buon rapporto con il territorio. L’azienda non è solo tua. Noi abbiamo preso delle modestissime radici di una pianta e le abbiamo portate sugli scaffali del mondo, al Moma di New York. Veniamo dalla terra e non dobbiamo dimenticarlo, ma riportare alle origini il tuo successo. L’impresa non è una onlus e mira ovviamente al profitto, ma ci devono essere valori e principi etici altrimenti la tua vita sarà breve. Poi innovazione continua e guardare con occhio più lungo degli altri.

Nella gestione di aziende familiari bisogna stare attenti a non farsi prendere dal familismo. Se non c’è nessuno all’altezza, meglio cercare un valido manager all’esterno

Mai pensato di vendere o a quotarsi in borsa?

Per il momento cerchiamo di resistere. Il motto di famiglia è domatur armis, conquistata solo con la forza delle armi.

 

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