Nella nota trimestrale sull’andamento del mercato del lavoro, pubblicata dall’ISTAT a settembre, si legge che tra il secondo trimestre del 2016 e lo stesso periodo dell’anno precedente gli occupati sono cresciuti di 439 mila unità e che l’aumento è in larga misura generato dalla crescita della componente giovanile tra i 15 ed i 34 anni (+223 mila su basa annua). Due buone notizie rafforzate dal fatto che a crescere sono soprattutto gli occupati dipendenti, sia a tempo indeterminato (+308 mila) sia a termine (+72 mila) e che dopo un periodo di contrazione torna ad aumentare anche il numero di lavoratori indipendenti.
Anche sul versante del non lavoro i segnali sono incoraggianti. Prosegue il calo, degli inattivi soprattutto per la componente degli scoraggiati mentre il tasso di disoccupazione, diminuisce dello 0,6% rispetto allo stesso trimestre del 2015 con un calo tendenziale di 109 mila disoccupati. Il miglioramento delle condizioni di chi è alla ricerca di lavoro è testimoniato anche dalla diminuzione tendenziale dei giovani NEET che calano su base annua di 252 mila unità.
Dunque tutto bene? Difficile dirlo. Sicuramente il miglioramento è significativo rispetto agli anni precedenti ma la crescita è fragile e comunque è assai difficile valutare se, in futuro, il processo di rafforzamento del mercato del lavoro è destinato a consolidarsi o a ridimensionarsi. I risultati positivi potrebbero, infatti, essere la conseguenza dei forti incentivi economici introdotti nel 2015 piuttosto che l’effetto delle novità introdotte dal Jobs Act. I recenti dati INPS sui contratti segnalano una contrazione dei nuovi rapporti a tutele crescenti e viene quindi da chiedersi se la ripresa dell’occupazione potrà consolidarsi in futuro anche in una fase di progressiva riduzione degli incentivi alla domanda di lavoro.
La risposta è affermativa ma a condizione che entrino in azione le innovazioni introdotte dalla riforma sul versante delle politiche attive, ossia l’insieme delle misure che puntano a valorizzare il capitale umano, a renderlo maggiormente occupabile. Infatti, mancano ancora all’appello le misure del Jobs Act che riguardano il rafforzamento dei servizi per il lavoro, il sostegno alla ricollocazione dei lavoratori beneficiari di sussidi di disoccupazione, l’apprendistato, la formazione, gli interventi di politica attiva per le grandi crisi aziendali. In sostanza tutte quelle misure che agiscono sui processi di transizione, sulla qualificazione del capitale umano e sulla intermediazione del lavoro.
Gli stimoli al mercato, attraverso gli incentivi possono agire da innesco per i processi di espansione della domanda di lavoro ma se non sono sostenuti da solide politiche attive rischiano di disperdersi. Cosi come il progressivo ampliamento della platea dei beneficiari di sostegno al reddito (la Naspi, ma anche i gli interventi per la povertà) potrebbero, nel tempo, diventare insostenibili per il bilancio dello Stato se non aumenta il tasso di reinserimento al lavoro dei disoccupati di lunga durata.
La possibilità di dare sostenibilità alla lenta ma costante crescita dell’occupazione, implica, in altre parole l’urgenza di investire nelle politiche attive puntando proprio sul fattore umano come motore dello sviluppo economico. Una tesi ampiamente argomentata nel libro il “Fattore umano” (R. Benini M. Sorcioni – Donzelli 2016) nel quale si cerca di dimostrare perché è il lavoro che fa l’economia e non il contrario. Seguendo questa prospettiva le storiche difficoltà occupazionali del nostro modello di sviluppo possono essere ricondotte – almeno negli ultimi 20 anni – alla sistematica sottovalutazione del “fattore umano” nelle politiche del lavoro.
Strabismo negli investimenti sempre a vantaggio delle componenti passive e assistenziali, scarsissima capacità di valorizzare i fondi europei per qualificare la formazione, destrutturazione della rete dei servizi per il lavoro sono solo alcuni degli errori che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni, e che nonostante l’alternarsi ciclico di fasi di maggiore o minore espansione dell’economia europea, hanno impedito al nostro paese di ampliare la partecipazione al lavoro, mantenendo il tasso di occupazione dal 1994 ad oggi sistematicamente 10 punti al di sotto della media europea.
Un ritardo storico che ci appare tanto più grave quanto più il confronto avviene con paesi che, al contrario, hanno fatto del fattore umano il principale elemento di sviluppo competitivo delle proprie economie. Come la Germania che partire dal 2004 ha fortemente puntato sulle politiche attive, investendo significativamente sulla formazione e sul sistema duale, rafforzando la rete dei servizi per il lavoro e condizionando l’erogazione dei sussidi alla partecipazione a programmi di reinserimento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Oggi la Germania vanta il minor tasso di disoccupazione giovanile della UE ed uno dei più alti tassi di occupazione europei, risultati che la rendono l’economia più forte del vecchio continente. Il percorso da seguire è quindi chiaro: superare le storiche resistenze culturali e scegliere di investire sul fattore umano. Una sfida che oggi può contare su un nuovo impianto normativo che tuttavia ancora stenta ad essere trasformato in strumenti e misure concrete. L’incertezza riguardo l’esito del referendum costituzionale, che come noto prevede un riordino delle competenze tra Stato e regioni, ed ha rallentato l’introduzione dei nuovi strumenti del Jobs Act.
Ma al di là del risultato sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che la sfida dello sviluppo si giochi sul terreno delle competenze e che solo un ambiente in grado di promuovere il fattore umano permetterà di consolidare ed amplificare la crescita economica e con essa le dinamiche espansive della domanda di lavoro. Una sfida che nel nostro paese è ancora in buona parte da giocare e da vincere.
Maurizio Sorcioni, Coordinatore Risorse Umane di Italia Lavoro spa