Se il mondo dopo la pandemia non sarà più lo stesso, il lavoro viveva già prima una profonda trasformazione che sarà ancora più pervasiva e rapida. E il lavoro è il crocevia delle grandi trasformazioni, quelle che l’Italia non è ancora stata in grado di cogliere, soprattutto sul fronte dell’innovazione declinata in chiave digitale. Ma lo smart working non riguarda naturalmente solo i lavoratori: cambiano l’impresa, la mentalità, le gerarchie, le culture organizzative. E se fino a pochi mesi fa veniva considerato un’opportunità, ora è davvero una necessità urgente. Il lavoro smart è un processo di innovazione dell’impresa e dell’organizzazione del lavoro, ma anche delle città e della vita. Per questo è importante che coinvolga tutti, per approdare insieme a un cambiamento culturale ancor prima che organizzativo. Nel mio libro “Indipendenti. Guida allo smart working” (Rubbettino, 2020) metto in luce i vantaggi del lavoro agile senza però trascurare i pericoli di un suo utilizzo improprio.
Lo smart working è infatti un lavoro “intelligente” perché valorizza la reciprocità e trasferisce quote di responsabilità e libertà alle persone, favorendo il loro benessere e la produttività. Per alcuni tuttavia si è trasformato in un cottimo digitale a 20 ore al giorno, per altri ancora si è trattato di riposo forzato. Il “fai da te” di questi mesi è stato spesso deludente, perché le aziende, la pubblica amministrazione e i lavoratori stessi sono stati colti di sorpresa, non erano abituati e organizzati (quella del lavoro digitale è una delle tante classifiche in cui purtroppo l’Italia è fanalino di coda a livello europeo), ma la verità è che lo smart working in realtà rappresenta una grande sfida di sostenibilità per riprendersi la vita e costruire un lavoro migliore. Quello che abbiamo visto durante la pandemia è stato infatti telelavoro cioè lo stesso lavoro che si svolge ordinariamente in ufficio, spostato da remoto, a casa o in altri luoghi.
Lo smart working è invece un cambiamento radicale della cultura del lavoro, è un lavoro non rispetto a una mansione e a un progetto codificato, ma basato su obiettivi, per cui anche l’orario, le modalità e il luogo in cui esso viene svolto rientrano nelle possibilità di scelta del singolo. Si tratta in sostanza di una cessione di maggiore libertà al lavoratore in cambio di una maggiore responsabilità sugli obiettivi: una nuova frontiera sia per il lavoro dipendente sia per quello autonomo, anche perché i lavori svolti in smart working non sono autonomi, ma dal punto di vista giuridico sono i lavoratori ad essere capaci di lavorare in autonomia. È una straordinaria opportunità che consente di lavorare senza avere un luogo fisso e senza avere orari codificati. Spesso è proprio la mancanza di autonomia a soffocare produttività e benessere delle persone.
L’orario, le modalità e il luogo dovrebbero rientrare nelle possibilità di scelta del lavoratore
Nel lavoro agile sono ancor più decisivi la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento con gli altri. Dunque, urge necessariamente un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano “dipendenze” sono nocive e finiscono per ingabbiare le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori in-dipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale.
Certamente non devono essere sottovalutati i problemi etici, sociali e di salvaguardia dei diritti dei cittadini, che alcune innovazioni tecnologiche recano con sé. Ma sono problemi che devono essere gestiti, mentre abbandonarsi semplicemente al tecno-disfattismo serve solo a far perdere di vista le opportunità all’orizzonte. E a tal proposito i “tecnofobi” dovrebbero ricordarsi che sono i Paesi che hanno investito di più in tecnologia e formazione ad avere tassi di disoccupazione più bassi: Germania, Corea del Sud e Giappone. E nei primi due casi i lavoratori hanno salari più alti e svolgono mansioni a più alto ingaggio cognitivo e maggiore valore aggiunto.
I “tecnofobi” dovrebbero ricordarsi che sono i Paesi che hanno investito di più in tecnologia e formazione ad avere tassi di disoccupazione più bassi: Germania, Corea del Sud e Giappone
È necessario dunque cogliere i megatrend e il loro impatto sull’economia e sul mercato del lavoro e intraprendere politiche che accompagnino la transizione tecnologica per massimizzarne i benefici a vantaggio di tutti: individuare le competenze del futuro, ripensare i tempi e gli spazi del lavoro, immaginare un diverso sistema educativo e un nuovo sistema di rappresentanza e dei diritti.
E anche il sindacato è chiamato certamente a giocare un ruolo fondamentale mediante gli accordi aziendali per una nuova e più efficiente gestione dei tempi, oggi possibile proprio grazie alla tecnologia. Perché la cultura di gestione aziendale è ancora organizzata e basata sul controllo del lavoratore, come se la timbratura del cartellino e l’attività svolta, in un determinato orario e in una determinata sede, equivalessero a una verifica di produttività. In realtà, le organizzazioni che utilizzano lo smart working privilegiano di più la libertà e la responsabilità all’interno della libertà del lavoratore. Molte aziende lo avevano capito e avevano cambiato organizzazione del lavoro, cultura di gestione aziendale, modello di business trovando che il benessere del lavoratore aumentava e aumentava conseguentemente anche la produttività.
Certo è che si tratta di un processo impegnativo, bisogna dedicare ampio spazio alla formazione, bisogna coinvolgere tutti, non deve riguardare esclusivamente i lavoratori che hanno lavori remotizzabili. È un processo di cambiamento aziendale, per cui anche portarlo avanti in emergenza denota molti rischi. L’errore più grave che si possa commettere è giudicare smart working ciò che smart working non è. Le aziende e le amministrazioni erano talmente vecchie da essere incapaci di dare continuità al lavoro anche da casa. Questo è il vero discrimine che si pone rispetto all’esperienza fatta fino a questo momento. L’elemento fondamentale riguarda però gli ingredienti della ricetta del cambiamento, che si chiamano: libertà, autonomia, responsabilità e fiducia. Ecco, questi sono gli ingredienti veri e necessari.
Oggi invece si corre il rischio di una iper-regolamentazione dello smart working che rischia, appunto, di ucciderlo in culla. Invece lo smart working è il lavoro che si concilia meglio con la vita.
Stanno cambiando molto i bisogni sociali proprio perché siamo male organizzati come tempi della vita e del lavoro; è questa una delle cause che hanno abbassato il tasso di natalità nel nostro Paese e bisogna assolutamente metterlo in conto. La conciliazione del lavoro con la vita, e non viceversa, è assolutamente più raggiungibile e questo risponde ai nuovi bisogni sociali dei trend demografici. In Italia abbiamo sempre meno natalità e abbiamo raddoppiato il numero degli ultraottantenni. C’è un evidente problema della famiglia, non del futuro, ma del presente di cura degli anziani e dei bambini, di quei pochi che ci sono.
Perciò bisogna riorganizzare, io dico, il lavoro, ma bisogna anche riorganizzare le città, bisogna pensare a città policentriche, in cui il lavoro in smart working non è per forza fatto da casa, ma in queste nuove aree che io chiamo smart work hub, nelle periferie, in cui oggi si aprono tantissimi spazi; bisogna fare in modo che il lavoro rimanga lì e le periferie non diventino il luogo dove ritornare la sera. È questa una soluzione che consente anche di rivitalizzare intelligentemente le aree interne. Non possono diventare o rimanere aree dormitorio dell’inurbamento quotidiano della grande città. C’è una polemica in corso, ma la città che vive il suo business sul pendolarismo è una città malata, è una città inquinata, è una città intasata e soprattutto è una città disumana perché le persone non riescono a vivere appieno la loro vita.
Abbiamo la possibilità ridisegnare le nostre città, di rivitalizzare le aree interne, di valorizzare le periferie in modo che non siano solo il posto dove ritornare la sera
Per fare tutto questo, però, serve che in tutti i luoghi ci siano gruppi dirigenti dotati di visione. Non si può guardare al breve periodo, al singolo problema del bar, solo per fare un esempio, che ha meno volume d’affari di una volta perché ci sono meno pendolari. Bisogna pensare e comprendere che le città non sono sempre state così, il lavoro non è sempre stato così. Quando si manifestano dei mutamenti, chi ha visione e li anticipa è in grado di ridurre i rischi ed esaltare le opportunità da cogliere. Per questo serve la capacità di vedere oltre il ricatto del breve termine, tradurre in realtà queste intuizioni come molti stanno facendo, purtroppo devo dire soprattutto in altri Paesi.
Anche dal punto di vista sindacale servono rappresentanti preparati e competenti, non sempre collocati sulla difensiva, ma capaci invece di tracciare nuovi diritti digitali che serviranno in questo nuovo lavoro. Il diritto alla disconnessione, per esempio, è un diritto molto importante, perché altrimenti la traduzione dello smart working rischia di essere un cottimo digitale appunto e lo smart working è esattamente l’opposto. Bisogna avere il coraggio di rompere gli indugi e di mettersi in gioco. Sul serio.