Il 21 gennaio 2017 mezzo milione di donne (e di uomini loro alleati) hanno marciato a Washington per ricordare al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che “i diritti delle donne sono diritti umani” . Che cosa ha mosso le donne di Washington e le altre che nello stesso giorno hanno manifestato in tante altre città del mondo?
Credo che a muoverle sia stata la sensazione di vulnerabilità che per la prima volta si è materializzata davanti a loro. Davanti a tutte noi. Una campagna elettorale dai toni asprissimi, una campagna in cui uno dei candidati aveva individuato l’attacco alle donne come l’arma vincente, capace non solo di depotenziare l’avversaria, ma anche di sollecitare il consenso tra quanti, più o meno apertamente, pensano che in questi ultimi trent’anni le donne si sono “allargate” troppo.
In campagna elettorale Donald Trump ha avuto il coraggio di dire cose che altri pensavano ma non dicevano per il timore di essere emarginati dalla reazione “politically correct” .
Quell’aggettivo “nasty“, “sgradevole”, usato da Trump contro Hillary Clinton, sembrava rivolto universalmente all’intero genere femminile che non concordi con un modello di donna remissiva e capace di restare “al posto suo”.
Il fatto che molti americani abbiano applaudito chi teorizzava un attacco ai diritti delle donne e che molti (e molte) l’abbiano votato, ha fatto finalmente cogliere lo squillo di un campanello d’allarme fino a quel momento inascoltato: “Ehi, ma non è che si vuole riportare l’orologio indietro e noi donne non ce ne stiamo neppure accorgendo?”
Dagli anni Ottanta in poi la parità di genere si è progressivamente affermata come un dato di fatto. Più di recente sembrava addirittura politicamente scorretto non sostenerla.
Dunque, in Italia, e almeno apparentemente, tutti si sono dichiarati a favore della legge Golfo-Mosca per le quote femminili nei consigli d’amministrazione, tutti a favore della parità di salario e così via.
Ma attenzione, le parole, a volte, si pronunciano per convenienza più che per convinzione. E, in tempi di fake news, possono scivolare via senza lasciare traccia. Dunque, negli ultimi anni, si è potuto dichiarare solennemente “sono un sostenitore delle donne” e poi umiliarle nei fatti .
Sono rientrati dalla finestra pregiudizi e diffidenze contro le donne, pregiudizi vestiti a nuovo e presentati come “nuove tendenze”. Come nuova libertà contro la dittatura del politicamente corretto.
La marcia del 21 gennaio, promossa inizialmente dagli avversari di Donald Trump, ha avuto il successo che ha avuto proprio perché si annusa la voglia di ritorno al passato. Un desiderio velleitario, se si pensa a quanto il talento femminile ha contribuito, contribuisce e contribuirà al benessere della collettività e del pianeta.
Le donne e gli uomini sanno che solo lavorando insieme, in famiglia e sul luogo di lavoro, ci sarà un equilibrio sociale e familiare. La marcia non sarà stata inutile, e non sarà dimenticata, se questo concetto di vantaggio reciproco, e soprattutto collettivo, sarà ricordato ogni giorno, nelle nostre vite di ogni giorno.
P.S – Servirà anche analizzare il perché del voto femminile a Donald Trump. Forse non tutte considerano Sheryl Sandberg un’ispirazione e forse le donne metropolitane, in carriera e di successo hanno sbagliato pensando che la loro fosse la scelta vincente. L’unica possibile. La marcia di Washington ha riunito donne di generazioni, ceti sociali e lavori diversi. Perché certi attacchi riguardano tutte. E sarebbe ingenuo sentirsene fuori.
* Giornalista, blogger e conduttrice televisiva