Quando si parla di investimenti esteri si rischia sempre di fare un po’ di confusione. Ci sono infatti due tipi di investimenti: quelli di natura finanziaria, diretti all’acquisizione di una società e altri finalizzati alla creazione di nuova capacità produttiva (es. fabbriche, impianti, ecc.).
Volendo fare una generalizzazione, che però non è molto lontana dalla realtà, gli investimenti di operatori esteri presenti in Italia sono stati nell’ultimo decennio quasi esclusivamente del primo tipo.
In sostanza gli investitori esteri vengono in Italia solo per fare affari convenienti a loro (e sarebbe ingenuo pensare una cosa diversa), e non certo per contribuire al benessere economico del nostro Paese.
La vicenda di Parmalat, acquisita dalla francese Lactalis nel 2011, sta lì a dimostrare questo assunto. Come è noto, infatti, Parmalat era dotata di abbondanti risorse in denaro liquido che, dopo l’acquisizione, sono state drenate, nel 2012, dalla nuova società proprietaria con un’operazione di acquisizione non facilmente giustificabile, creando anche i presupposti per qualche azione legale.
In questo contesto, sentir parlare di politica pubblica di sostegno degli investimenti esteri è per un economista consapevole, come ritiene di essere chi scrive, una sorta di impegno collettivo a fare harakiri.
Infatti, gli svantaggi di un investimento estero di natura finanziaria non sono pochi:
- tendenza dell’operatore a utilizzare la società italiana acquisita solo a proprio beneficio, con conseguenti operazioni di delocalizzazione, ridimensionamento, o addirittura di chiusura (vedi il caso di Alcoa con l’impianto in Sardegna a Portovesme);
- trasferimento nel paese di origine della società acquirente degli eventuali utili derivanti dall’attività produttiva della società italiana, con conseguente depauperamento dell’economia del nostro Paese;
- riduzione delle tutele dei lavoratori (vedi il caso di Amazon, anche se non si è trattato di un investimento finanziario).
E’ evidente che questi investimenti non aumentano le possibilità di accrescere il Pil, il quale dipende (è il caso di ricordarlo) non dai consumi (con buona pace dei politici italiani), bensì dalla capacità di vendere i beni e servizi prodotti in Italia (che sono oggetto di misurazione ai fini della quantificazione del Pil).
Infatti, se non si vendono i prodotti realizzati in Italia, non ci può essere produzione nazionale (ossia Pil).
E’ d’altronde evidente che i consumi delle famiglie sono spesso diretti (vedi ad esempio i prodotti dell’elettronica e le auto) verso beni realizzati in altri paesi, con il risultato che l’incremento dei consumi, se diretti a beni di produzione estera, non aumenta il Pil italiano, bensì quello dei paesi produttori dei beni che noi importiamo.
Tornando al tema degli investimenti esteri, va d’altronde riconosciuto che per gli operatori stranieri il mercato italiano non presenta caratteristiche tali da ritenerlo adatto per investimenti di natura produttiva, che per loro natura sono di lungo termine.
Questa affermazione non è frutto di un approccio qualunquista dell’autore di questo articolo, ma è certificata dai dati della Banca mondiale, che nel suo sito monitora tutti i fattori che influenzano l’attrattività dei vari paesi sul piano del business.
Si riporta una tabella (tratta dal sito sopra citato), che illustra il punteggio attribuito dalla Banca mondiale ai vari fattori che influenzano l’attività di business (nel 2017 e nel 2018), e la posizione dell’Italia nel mondo (tenendo presente che sono valutati 190 paesi).
Factors influencing business activity | 2018 Rank | 2018 Points | 2017 Points |
Overall | 46 | 72.70 | 71.55 |
Starting a business | 66 | 89.42 | 89.40 |
Dealing with construction Permits | 96 | 67.26 | 67.13 |
Getting Electricity | 28 | 85.27 | 79.94 |
Registering Property | 23 | 81.70 | 81.69 |
Getting Credit | 105 | 45.00 | 45.00 |
Protecting Minority Investors | 62 | 58.33 | 58.33 |
Payng Taxes | 112 | 68.29 | 62.65 |
Trading across Borders | 1 | 100.00 | 100.00 |
Enforcing Contracts | 108 | 54.79 | 54.79 |
Resolving Insolvency | 24 | 76.97 | 76 |
Come si può vedere, complessivamente l’Italia si posiziona al 46° posto nel mondo. Dietro all’Italia, tra i paesi dell’Ue, ci sono solo Bulgaria, Croazia, Belgio, Cipro, Lussemburgo, Grecia, Malta.
Insomma, rispetto agli altri paesi europei confrontabili a noi, siamo all’ultimo posto: Gran Bretagna (7° posto), Germania (20° posto), Spagna (28° posto), Francia (31° posto). Mentre siamo al primo posto (insieme ad altri paesi) per apertura al commercio internazionale, la peggiore situazione la evidenziamo sul piano fiscale (112° posto).
L’analisi della tabella dimostra un altro punto debole del sistema Italia: la difficoltà a far rispettare i contratti, dovuto principalmente ad una durata eccessiva dei processi (108° posto nel mondo).
Un ulteriore elemento di debolezza del sistema Italia è la difficoltà a ottenere credito (105° posto al mondo). Un ultimo fattore che ci pone in basso alla classifica mondiale è la burocrazia per ottenere permessi di costruzione (96° posto nel mondo).
In conclusione, gli investimenti esteri sono un tema complesso, che va affrontato, come tutte le questioni economiche, con consapevolezza, e non con facili proclami, sganciati dalla realtà.
* Professore straordinario in Politica economica dell’Università G. Marconi