A quattro punti percentuali di aumento dell’export di beni e servizi in termini reali corrisponde un aumento di un punto percentuale del PIL. Un dato oggettivo che conferma, ancora una volta, come l’internazionalizzazione abbia un ruolo centrale nella formazione della ricchezza di un Paese e, nel nostro caso, costituisca forza trainante per rimettere in moto un sistema economico che annaspa da tempo.
Non vi è una formula universale e vincente per percorrere il cammino verso l’internazionalizzazione. Oltre all’innovazione tecnologica che certamente ha la sua influenza, sono determinanti la strategia competitiva, la struttura organizzativa e ancor più la gestione delle risorse – strumentali e umane. In sostanza, il capitale intangibile che non trova riscontro nei bilanci tradizionali e che fa la differenza.
Per questo il management gioca un ruolo fondamentale in questo processo: come artefice e contaminatore dei cambiamenti, vanta profili con un elevata “vocazione” all’internazionalizzazione e bagaglio di skills specifiche. E il legislatore italiano, che Federmanager ha sollecitato più volte in tal senso, si è finalmente accorto delle potenzialità di queste figure, pur se ancora troppo timidamente.
L’iniziativa del MISE partita nel 2016, che aveva introdotto un voucher a fondo perduto di 10.000 euro a copertura di servizi erogati per almeno 6 mesi a tutte quelle PMI che avessero inserito il cd. Temporary Export Manager (TEM), si è rivelata di successo al punto che oggi ci aspettiamo che sia riproposta.
La customer satisfaction commissionata dal MISE e dall’ICE ha mostrato il giudizio positivo delle aziende che hanno effettivamente usufruito dei voucher: il 47% ha dichiarato di aver raggiunto l’obbiettivo principale di supportare l’avvio ovvero l’espansione del processo di internazionalizzazione. Per l’82%, che non era presente all’estero, sono stati raggiunti benefici quali un significativo incremento del numero di clienti internazionali, un aumento del numero di mercati di esportazione, la crescita del fatturato estero.
Secondo l’Ocse (“Entrepreneurship at a glance 2016”) l’Italia risulta avere il valore più basso sulla quota di export concentrata nelle 100 aziende più grandi del Paese – circa il 25% – poco più della metà dei livelli di Francia e Germania. Dagli stessi numeri viene fuori che circa la metà delle esportazioni in Italia è realizzata da imprese con meno di 250 dipendenti, appunto piccole e medie imprese – il quarto valore più elevato dell’Ocse.
Le PMI – o almeno, una parte di esse – hanno saputo adeguarsi alle fasi critiche della nostra economia e sviluppare soluzioni particolarmente innovative che hanno consentito loro di posizionarsi in segmenti di mercato d’élite in cui prevalgono per creatività e personalizzazione, modificando il modello di governance e/o aprendosi a competenze oltre il “cortile familiare”.
Se questi dati lasciano ben sperare, tuttavia è innegabile come persistano alcune difficoltà ad aprirsi verso scenari produttivi oltreconfine: la mancanza di una struttura solida, la scarsità di competenze strategiche e organizzative e l’inadeguatezza delle risorse a disposizione; non ultimo, un forte gap culturale che impedisce all’azienda la percezione dei vantaggi effettivi che gli sbocchi internazionali possono apportare.
Se l’uomo solo al comando non è più di moda, per avere successo occorre un team di solide competenze, a cominciare da quelle manageriali.
La posta in palio è notevole: recenti dati hanno rivelato che accettando la sfida dell’internazionalizzazione, le PMI potrebbero veder crescere il proprio fatturato con percentuali in doppia cifra.
Pertanto, oggi al legislatore chiediamo uno sforzo ulteriore, necessario per un importante balzo in avanti: incentivi per l’inserimento manager in grado di stimolare e guidare il processo di internazionalizzazione; più risorse per la formazione dei dipendenti che vanno istruiti adeguatamente all’utilizzo di mezzi di ultima generazione; una campagna informativa che gradualmente supporti l’evoluzione culturale sperata.
Direttore Generale Federmanager