In un articolo del 2012 pubblicato sulla Harvard Business Review, Davenport e Patil, due autorità nel campo dei sistemi informativi aziendali, definivano il Data scientist come “the sexiest job of the 21st century”. L’espressione riprendeva una provocazione di Hal Varian, capo economista di Google, che aveva dichiarato che, nel prossimo decennio, il lavoro più sexy sarebbe stato quello dello statistico. In entrambi i casi il tema era: le aziende stanno investendo ingenti somme nelle nuove tecnologie dell’Artificial Intelligence (AI) applicate a enormi quantità di dati (Big Data), ma le competenze sul mercato del lavoro sono scarse. Si apriranno pertanto posizioni di lavoro interessanti con stipendi invidiabili.
A meno di dieci anni di distanza, la situazione si è dimostrata essere un po’ diversa. Molte grandi imprese hanno effettivamente assunto folte schiere di Data scientist, con lauree in informatica o ingegneria conseguite nelle migliori università, offrendo anche stipendi davvero importanti. Ma i risultati avuti non sono stati all’altezza delle aspettative. Creare una struttura di analisi dei dati a riporto del vertice aziendale, con l’aspettativa che macinando una grande mole di dati gli esperti sarebbero stati in grado di migliorare le strategie, i processi di marketing o l’efficienza produttiva, si è rivelata in un certo senso un’illusione.
Cosa è mancato quindi? Esaminando le esperienze degli anni più recenti, i casi di studio e le indagini effettuate presso le imprese, emerge una spiegazione piuttosto chiara: è mancato il management.
Non è stata strutturata una strategia in grado di mettere le enormi potenzialità di analisi dei dati al servizio del business, sotto la responsabilità diretta e continuativa del vertice aziendale e dei responsabili di primo livello delle funzioni. I dati non parlano certamente da soli, parlano solo se interrogati. Ma per interrogarli serve una stretta e approfondita collaborazione tra i conoscitori dei problemi e della visione aziendale – i manager – e gli specialisti.
Per prima cosa occorre pertanto formulare dei problemi aziendali, inizialmente anche in forma generale e non tecnica. Serve anche vincolare rigorosamente l’azienda a prendere decisioni in conseguenza delle scoperte che farà sulla base dei dati. Se i dati vengono poi addomesticati, o ancor peggio riposti in un cassetto quando non corrispondono ai desideri del vertice, il gioco inevitabilmente si interrompe, da subito.
È necessario allora che il vertice enunci delle priorità chiare, dei problemi che è importante e/o urgente affrontare, per i quali il contributo dei dati è essenziale.
La trasformazione digitale delle imprese non è solo un problema tecnologico, ma fondamentalmente un problema di management
Poi viene la parte tecnica. Le domande aziendali devono essere tradotte in ipotesi specifiche e quantificabili.
Non basta semplicemente enunciare un problema di efficienza della produzione. Occorre formulare alcune ipotesi circa le probabili cause del fenomeno. Tra queste, potrebbero ad esempio essere ricompresi: una eccessiva frammentazione del portafoglio prodotti, la presenza di arresti prolungati delle macchine, tempi di setup eccessivamente lunghi, acquisti di componenti non ottimali, o errato layout dello stabilimento. A ciascuna di tali ipotesi si fa corrispondere un insieme di variabili quantitative, sulle quali si utilizzano dati esistenti (è questa la situazione di partenza migliore) oppure si raccolgono dati nuovi (in tal caso serve calcolare i costi di raccolta). I dati sono così posti al servizio di un obiettivo di spiegazione, ovvero di ricerca delle cause.
Già a questo livello si può rilevare una significativa differenza di approccio: il manager ha in testa una domanda precisa e cerca in tutti i modi di ottenere i dati necessari a rispondere a quella domanda. Il Data scientist, che non ha maturato un’esperienza aziendale, non ha chiare le domande e cerca qualunque regolarità possibile nei dati, qualunque indizio di una struttura regolare dei fenomeni analizzati. Ma se il Data scientist non riceve le indicazioni fornite da una guida, finisce per produrre risultati disallineati rispetto alle esigenze aziendali. Si dice che l’azienda manda i suoi analisti a fare “fishing dei dati”: se un esperto va nel mare aperto dei dati a cercare, qualcosa troverà senz’altro, ma non è detto che sia ciò che davvero è utile per l’azienda.
Occorre poi risolvere il problema e prendere delle decisioni. Certamente, ma quali? Dalla spiegazione non emerge necessariamente un’unica soluzione.
In questo caso si manifesta la necessità di elaborare alcune congetture su come risolvere il problema. La Data science insegna che con i dati si possono congegnare esperimenti in grado di aiutare le aziende non solo a comprendere i problemi, ma anche a simulare gli effetti di varie possibili soluzioni.
Se ad esempio un’azienda ha sensorizzato le macchine, avrà a disposizione un’enorme mole di dati. Con questi potrà cercare la causa di fenomeni di inefficienza, con la collaborazione degli esperti di dati. Ma potrà anche simulare quali effetti possano avere decisioni alternative di gestione.
Conviene ridurre drasticamente il numero dei prodotti? Moltissime aziende italiane hanno portafogli prodotti eccessivamente ampi, a causa dell’attitudine a rispondere sempre positivamente alle richieste avanzate dai clienti. Quale impatto avrebbe togliere dal portafoglio le referenze marginali, quelle ad esempio con vendite inferiori ad une certa soglia? Quale impatto sulla pianificazione della produzione? (Certo, poi bisognerebbe esaminare l’impatto sulle vendite, ma anche su questo la scienza dei dati aiuta moltissimo). Oppure è utile modificare il layout delle macchine? In questa situazione si può simulare l’impatto sui tempi di produzione, di attesa, di work in progress sotto vari scenari di localizzazione nello stabilimento?
La Data science aiuta le aziende non solo a comprendere i problemi, ma anche a simulare gli effetti di varie possibili soluzioni
In tutti questi casi, chi guida il processo è e deve essere il manager.
Sta perciò prendendo sempre più piede la consapevolezza che la trasformazione digitale delle imprese non è innanzitutto un problema tecnologico (anche), ma fondamentalmente un problema reale di management. Se questo è vero, tuttavia, sorgono domande ineludibili sulle competenze digitali apprese dai manager. Primo, qual è la maturità digitale, o 4.0, dei manager? Sono in grado di effettuare un’efficace autovalutazione, per poi costruirsi percorsi individualizzati di formazione e sviluppo professionale? Secondo, i manager sanno valutare la maturità digitale dei propri collaboratori aziendali? Con quali strumenti e metodi? Sanno come disegnare le nuove posizioni di lavoro, come reclutare, come formare i nuovi collaboratori, aumentando le competenze digitali delle imprese gestite? Terzo, i manager sono in grado di orientare le scelte tecnologiche delle imprese, con una conoscenza di base, ma assolutamente non superficiale, delle principali tecnologie 4.0?
A questa sfida risponde l’ambiziosa iniziativa di Federmanager, finalizzata a sviluppare e certificare un profilo professionale di Innovation manager.
Perché forse, in fondo, hanno sbagliato sia Varian che Davenport. Il lavoro più sexy del secolo è un lavoro le cui basi sono state poste quasi un secolo fa, ma che oggi si conferma attualissimo nell’orientamento all’innovazione: il manager.