La storia industriale del nostro Paese è una narrazione imprenditoriale, che racconta di persone che si sono fatte da sé, di esperienze di successo, di imprenditori illuminati che sono entrati nell’immaginario collettivo come “alfieri del progresso” e hanno fatto del coinvolgimento e della valorizzazione del territorio un punto strategico del modello di sviluppo, con evidenti riflessi occupazionali e sociali.
Pensiamo a Olivetti, Ferrari, Ferrero, Del Vecchio o agli Agnelli, icone del capitalismo italiano che hanno segnato il corso delle relazioni industriali.
È stato possibile così realizzare prodotti di assoluta eccellenza, motivo di vanto per ciò che nel mondo è definito come “Made in Italy”.
Figure dotate di visione e personalità, che da sole però non avrebbero mai potuto ottenere questi successi. Capaci di diffondere una cultura d’impresa innovativa, sono state in grado anche di costruire una classe manageriale cui dare fiducia nella gestione delle loro organizzazioni. Ma di questi manager cosa si dice? Poco o niente, nonostante il loro apporto ai prestigiosi traguardi conseguiti.
In altri casi poi, le figure manageriali sono state relegate a funzioni strettamente gestionali, senza quel respiro partecipativo che deve essere riconosciuto alla managerialità di alto profilo.
E difficoltà di tal genere si sono protratte nel tempo, con imprenditori restii a guardare oltre la compagine familiare, soprattutto nelle Pmi. Ma anche con manager talvolta troppo timidi nel far pesare il loro ruolo strategico. Non si tratta pertanto solo di un mancato coinvolgimento, a difettare è spesso la giusta rivendicazione di protagonismo.
Le Pmi hanno ancor più bisogno di aprirsi a una managerialità capace, esterna alla composizione familiare dell’azienda e dotata delle competenze che oggi il mercato richiede.
Non è più solo sul prodotto che si gioca la partita industriale. Serve un’offerta ampia che si proietti verso quei fattori, in prima battuta intangibili, a cui si attribuisce crescente importanza.
Manager di spessore possono rappresentare una garanzia di collegamento tra la realizzazione di giusti profitti e gli obiettivi di benessere a cui aspirano gli stakeholder, soprattutto in termini di innovazione, sostenibilità e inclusione.
Se è vero che il Pil nazionale è atteso in crescita, oltre il +1%, per il 2023 e per il 2024, nel secondo trimestre di quest’anno abbiamo registrato un rallentamento connesso alle complessità da affrontare. Per cause esogene, come le perduranti crisi internazionali, ma anche per il gap di managerialità che si rileva.
Non c’è tempo da perdere, bisogna avere più coraggio. Le imprese devono saper leggere il futuro e affidarsi – anche avvalendosi di lungimiranti sistemi di incentivazione pubblica – a manager preparati a guidare il cambiamento.