Poco prima di Natale Oracle, uno dei più grandi sviluppatori di software al mondo, si è fatta un regalo da 28,3 miliardi di dollari. Ha comprato Cerner, uno dei leader mondiali nella digitalizzazione delle cartelle cliniche e dei servizi informatici per la sanità. Se guardiamo alla storia di Oracle, è la più grande acquisizione mai messa a segno. Per concludere l’operazione ci vorrà tutto il 2022, ma la mossa della multinazionale la dice lunga sulle nuove rotte che i giganti del digitale intendono percorrere. La sanità è una di queste.
La pandemia ha rimesso la salute al centro dell’attenzione pubblica. E ha mostrato le fragilità di servizi che, nei Paesi più sviluppati, erano ormai dati per scontati, specie sul fronte del digitale. In Italia quando è venuto il momento di mettere a fattor comune conoscenze e informazioni, la digitalizzazione del servizio sanitario si è mostrata come una grande opera incompiuta, una giungla di applicazioni e banche dati sconnesse le une dalle altre e, in taluni casi, nemmeno informatizzate. A questo si aggiungono abitudini che la digitalizzazione potrebbe accelerare. Secondo uno studio della Mayo Clinic, un medico spende da una a due ore al giorno a compilare cartelle cliniche e sbrigare pratiche alla scrivania. Tempo che potrebbe dedicare ai pazienti. E che Oracle e Cerner, per esempio, puntano a liberare dalla burocrazia per restituirlo a visite e assistenza.
Secondo uno studio della Mayo Clinic, un medico spende da una a due ore al giorno a compilare cartelle cliniche e sbrigare pratiche alla scrivania. Tempo che potrebbe dedicare ai pazienti
Le premesse per accelerare la digitalizzazione ci sono, ma c’è ancora un grande vuoto da colmare. Riavvolgiamo il nastro della pandemia ai primi mesi del 2020, quando per semplificare le procedure di isolamento e provare a frenare la diffusione di Sars-Cov-2, i governi decidono di fare ricorso ad app di contact tracing scaricate sugli smartphone. Il dibattito si concentra subito su come tutelare la riservatezza dei cittadini, riuscire ad accelerare le modalità di ricostruzione delle catene del contagio e informare le persone dei contatti a rischio.
Ma quando si decide di adoperare il bluetooth, proprio per rispondere a tutte queste necessità, affiora uno scoglio puramente tecnico, eppure fondamentale: i sistemi operativi iOs e Android, presenti sulla maggior parte degli smartphone dei Paesi occidentali, non si parlano direttamente. Servono complesse architetture per aggirare l’ostacolo. Finché non sono i due colossi a sedersi al tavolo e risolvere il problema, con il loro sistema di exposure notification che chiunque abbia scaricato Immuni in Italia ha adoperato. Di fatto, sono Apple e Google a dare le carte nella partita del contact tracing, almeno dal punto di vista tecnologico. Sono le loro scelte ad accendere i motori della maggior parte delle app sviluppate in Europa (solo la Francia si dissocia) e a decidere chi è dentro la rete di segnalazione. Siccome l’app non è compatibile con tutti gli smartphone, alcune persone restano tagliate fuori dal sistema del contact tracing, salvo cambiare smartphone.
La vicenda delle app di contact tracing è esemplificativa delle urgenze nel mondo della sanità. La prima è l’interoperabilità: perché i sistemi funzionino, devono poter dialogare gli uni con gli altri. Specie se l’obiettivo è valorizzare le informazioni contenute in banche dati cliniche, dopo averle opportunamente pseudonimizzate, per esempio analizzandole con sistemi di intelligenza artificiale per implementare la cosiddetta medicina predittiva.
Meg Schaeffer, epidemiologa di Sas, colosso degli analytics, ha detto che in medicina «dobbiamo passare dal trovare ciò che è già presente all’anticipare ciò che accadrà. Sappiamo che la malattia esiste, da dove viene e come si evolve, ma non sappiamo quando questi cambiamenti avverranno. Dobbiamo continuare a utilizzare gli analytics per rispondere a queste domande e identificare le future minacce alla nostra salute». E secondo Mark Lambrecht, direttore del segmento Health and life sciences practice per le aree Emea e Apac di Sas, «il vero game changer è il ruolo cruciale degli analytics di livello normativo per accelerare il ricovero dei pazienti, garantire una catena di fornitura di medicinali clinici intatta e generare ricerche clinicamente significative e risultati personalizzati dall’afflusso di informazioni strutturate e non strutturate».
L’interoperabilità è anche una sicurezza dai rischi di lock-in tecnologici, consentendo elasticità e flessibilità ai sistemi sanitari, ma anche terreno fertile per far prosperare nuove idee e aziende ancora più innovative.
Aggiungiamo un altro tassello. Nel giro di pochi mesi, tra l’estate 2021 e le prime settimane del 2022, tre gravi casi di incidenti informatici coinvolgono in Italia sistemi sanitari: Regione Lazio, Asl 3 Napoli, Ulss 6 Euganea. Queste falle nella sicurezza espongono informazioni preziose e riservate, oltre a mettere in difficoltà l’erogazione dei servizi sanitari. Informazioni che, se difese, protette e adoperate cum grano salis, possono far accelerare la gestione della salute pubblica non solo verso una maggiore efficienza delle spese, ma anche verso cure personalizzate, maggiore prevenzione, un uso più accorto dei medicinali e lo sviluppo di nuove terapie. Perché la medicina diventi 4.0, il dato deve passare da corollario a cardine dell’architettura dei servizi sanitari.
Commentando gli impegni dell’Ue sullo sviluppo del decennio digitale, come la Commissione ha definito gli impegni tech dei prossimi anni, Cecilia Bonefeld-Dahl, d.g. di Digital Europe, associazione di categoria che rappresenta le imprese del digitale a livello comunitario (tra cui Apple, Amazon, Cisco, Google, Huawei, Intel e Microsoft), ha scritto che non ci può essere una «decade digitale per l’Europa senza innovazione sanitaria». «A oltre 4 milioni di persone nel nostro continente viene diagnosticato un cancro ogni anno e questo numero è destinato a raggiungere i 5,2 milioni nel 2040”, ha aggiunto. Per la direttrice sono cruciali quattro elementi: «Dimostrare come i dati sanitari sono usati per un migliore risultato per tutti e come l’infrastruttura dei dati assicura privacy e sicurezza; costruire sui successi esistenti; sviluppare servizi di salute digitale con il paziente al centro».
Per Cecilia Bonefeld-Dahl, direttore generale di Digital Europe, non ci può essere una decade digitale per l’Europa senza innovazione sanitaria
Ora è il momento di investire. Secondo un rapporto di McKinsey, cinque elementi oggi spingono gli investimenti. Primo: ridurre le inefficienze dei sistemi sanitari, che costano, intaccano i profitti e peggiorano l’esperienza degli utenti. Secondo: cavalcare un incremento degli investimenti. Solo negli Stati Uniti, tra il 2014 e il 2018 ci sono stati 580 accordi in ambito sanitario, per un controvalore di 83 miliardi di dollari. Data e analytics sono stati tra i motori di queste intese commerciali. Terzo: giocare da protagonisti nell’ambito della ricerca e dello sviluppo in settori come il cloud, piattaforma abilitante per la telemedicina. Il quarto elemento è l’abbattimento di silos e muri che storicamente hanno reso difficile analizzare i dati, aumentando la trasparenza, favorendo la condivisione delle informazioni e rendendo gli utenti più consapevoli. Infine, proprio la digitalizzazione può mettere in discussione le rendite di posizione degli operatori più grandi, rimettendo in gioco gli equilibri, togliendo ruggini accumulate negli anni e favorendo una sana concorrenza a favore del cittadino e paziente finale.