Che il Belpaese non sia mai stata la fertile culla dei grandi gruppi industriali è risaputo. Ma, come sosteneva lo storico economista Alfred Chandler, proprio le grandi imprese sono la soluzione migliore per l’evoluzione della produzione.
La crisi della grande industria italiana ha radici lontane. Dopo albori brillanti, nel passaggio tra gli anni ottanta e novanta è cambiata la morfologia del sistema imprenditoriale al punto da incrinare la struttura e pregiudicarne la tenuta per gli anni a venire, ponendo in discussione la sopravvivenza stessa di alcune tra le più importanti società italiane come la Montedison e la Olivetti.
Non ne è uscita soltanto ridimensionata la loro presenza di mercato e il loro raggio d’azione: il baricentro si è definitivamente spostato in direzione delle imprese minori e dei distretti industriali.
Si è trattato di un momento cruciale in cui è stato stravolto il ruolo assunto dalle grandi imprese fino a quel momento. Ripiegate su se stesse, alle imprese maggiori sono rimaste poche alternative: gestire la fase di declino, spostarsi in altre direzioni, scegliere di trapassare i confini nazionali o resistere, in attesa di strategiche alleanze internazionali.
Ciononostante, lo spettro della deindustrializzazione è rimasto lontano. Il paradosso è stato quello di trovarsi di fronte a un eccesso di industria, ad un Paese con un comparto manifatturiero diffuso, ma con un numero decrescente di imprese di grandi dimensioni. Il tessuto produttivo si è sbilanciato a vantaggio delle piccole-medie imprese contraddistinte, a fronte di costi contenuti, dalla presenza di lavoratori spesso a bassa specializzazione, fortemente esposte alla concorrenza dei Paesi emergenti.
Come si intuisce, il dibattito sulla struttura del tessuto imprenditoriale italiano trova nell’aspetto dimensionale un punto cruciale. E’ radicata l’idea che il gap di crescita e di internazionalizzazione del nostro Paese rispetto ai Peer europei sia dovuto principalmente a questo: frammentarietà e dualismo, con poche grandi imprese e molte PMI inadatte alla competizione internazionale.
Piuttosto, sul piano della concorrenza, il discrimine sta nel guardare alla tipologia di esportazione che, nel caso nostrano, è focalizzata prioritariamente su settori merceologici di appannaggio principalmente delle PMI. Ad onor del vero, è innegabile che l’internazionalizzazione, e tutto quanto ad essa connesso, sia più facilmente accessibile da parte delle imprese di grandi dimensioni. Ma legare il tutto alla solita questione del nanismo dimensionale dell’industria nostrana sarebbe miope.
Il discorso va spostato sul piano della qualità dell’attività imprenditoriale e da quanto questa, nel nostro caso, non venga favorita dalla frequente scarsità di capitali e da una struttura proprietaria spesso a carattere familiare.
Fortunatamente, negli ultimi tempi, qualcosa si è smosso e le grandi aziende continuano a lanciare segnali positivi. Nell’aria sembra tornata la voglia di investire. Dall’Indagine EIBIS, European investment bank Investment Survey, contenuta nel Rapporto “Investment and Investment Finance in Europe”, è emerso che l’82% delle imprese italiane ha effettuato investimenti nel corso del 2017, un dato inferiore alla media UE (84%), ma che segna un’inversione di tendenza rispetto agli anni della crisi; una percentuale che sale al 92% se si restringe il campo alle grandi imprese.
I pochi top player nostrani, sopravvissuti al lungo periodo di stagnazione, stanno trainando la ripresa, facendo registrare tassi elevati di crescita negli investimenti in beni materiali (+4% rispetto al 2011) e, ancor di più nei c.d. intangibles con un’impennata del 17%.
Si può rilevare una marcata propensione verso gli investimenti in innovazione tecnologica e le novità correlate – nuovi prodotti e servizi (29%), edifici, macchinari e IT (29%), espansione di capacità per prodotti e servizi esistenti (28%) – frutto delle agevolazioni fiscali degli ultimi anni, in particolare iper e super ammortamento, e del piano Industria 4.0. Alla ripresa degli investimenti è seguito chiaramente un incremento del valore della produzione, cresciuto nel 2016 del 3,2%, e della redditività.
E la spinta non sembra volersi arrestare: oltre un terzo delle grandi imprese italiane (il 37%) prevede nei prossimi tre anni di aumentare almeno del 50% le risorse umane e finanziarie dedicate alla sfera digital. Questo ci rincuora. Ma il problema dimensionale va rovesciato. La presenza di una moltitudine di PMI non va vissuta come un handicap strutturale da superare; guardandola, da un altro punto di vista, può rappresentare un segno di vitalità del sistema.
Nella giungla dell’internazionalizzazione, tuttavia, la scarsità di aziende grandi che fungano da fattore trainante nell’innovazione di processo e prodotto resta un deficit da non sottovalutare.
Ma niente è insuperabile se si guarda all’obiettivo dimensionale sotto un’altra lente non tanto – o non solo – sul piano della politica industriale, quanto piuttosto come l’esito di interventi che puntino ad accrescere la qualità del tessuto produttivo e delle risorse umane dedicate, facilitando la selezione competitiva e la crescita delle aziende migliori.
Questo il nuovo senso dell’essere “grandi”.