I ricordi smarriti

Nel mondo, quasi l’80% della popolazione è preoccupata di sviluppare una demenza e una persona su quattro pensa che non ci sia nulla da fare per prevenirla. Malati e caregiver non devono essere lasciati soli e serve più sostegno per la ricerca.

La chiamano la pandemia del terzo millennio e già oggi colpisce 55 milioni di persone nel mondo, con un nuovo caso ogni tre secondi. E a fronte di una popolazione che sarà sempre più anziana, si calcola che entro il 2050 toccherà 139 milioni di persone, con aumenti maggiori nei Paesi a basso e medio reddito. Stiamo parlando della demenza, un termine utilizzato per descrivere non una vera e propria malattia, ma una serie di sintomi, causati da disturbi diversi che colpiscono il cervello e che vanno ad agire sulla memoria, il pensiero, il comportamento e le emozioni. Il disturbo, e quindi la causa, più diffuso, è l’Alzheimer, all’origine del 60% delle demenze.

Secondo l’Adi, l’Alzheimer’s disease international, se la demenza fosse una nazione, sarebbe la quattordicesima economia più grande del mondo, con un valore di 1,3 trilioni di dollari. Solo in Italia le persone affette sono circa 1 milione, di cui 600 mila con l’Alzheimer, ma se si calcolano tutti i soggetti coinvolti, i cosiddetti caregiver (familiari e assistenti) la cifra sale a tre milioni. Una vera e propria sfida a cui sono chiamati tutti i Paesi e i loro sistemi sanitari.

Il nostro cervello è composto da oltre 86 miliardi di cellule nervose. Potrebbero essere paragonate, anche se sono di più, alle stelle che compongono la Via Lattea e allora la demenza – e in particolare l’Alzheimer – sarebbe una sorta di buco nero, che ingoia e distrugge le cellule nervose. Gli effetti si traducono nell’incapacità progressiva di comunicare efficacemente, ma anche di elaborare un pensiero complesso e svolgere attività comuni.

In Italia le persone affette da demenza sono circa 1 milione, di cui 600 mila con l’Alzheimer, ma se si calcolano tutti i soggetti coinvolti, i cosiddetti caregiver, la cifra sale a tre milioni

I sintomi dipendono da quali parti del cervello sono colpite e dalla malattia specifica alla base della demenza: oltre all’Alzheimer, infatti, ci sono la demenza vascolare, del corpo di Lewy e quella fronto-temporale. Generalmente si sviluppano in tarda età, ma in alcuni casi possono colpire persone con meno di 65 anni: si tratta della cosiddetta demenza ad esordio giovane, spesso la più aggressiva.

Il sintomo forse più noto è legato alla perdita della memoria, ma come abbiamo visto possono venire intaccate anche la sfera della comprensione e della comunicazione. Nonché quella dell’esecuzione di atti legati all’autonomia personale, come lavarsi o vestirsi. La demenza è la principale causa di disabilità e non autosufficienza tra gli anziani.

L’Alzheimer, in particolare, è noto per generare i cosiddetti disturbi comportamentali, che vanno dall’apatia all’incontinenza verbale, fino all’aggressività: la persona è soggetta a cambiamenti di personalità e umore, spesso molto difficili da gestire per i familiari.

Ad oggi non esiste una cura risolutiva dell’Alzheimer, ma solo terapie che nel migliore dei casi rallentano i sintomi. Negli ultimi anni la ricerca, in particolare negli Usa, ha portato alla scoperta di nuove molecole dai risultati promettenti, ma le nuove terapie – che si stanno affacciando anche sul mercato europeo, in attesa dell’approvazione dell’Ema, l’agenzia europea per i medicinali – sono molto costose e possono avere effetti collaterali importanti. Per questo, a maggior ragione, sono importantissimi la prevenzione – che è quella valida in generale per un buon invecchiamento – e una diagnosi precoce. Solo individuando i giusti soggetti si può offrire al maggior numero di persone la cura più adatta.

Sempre secondo l’Adi, fino a tre quarti delle persone affette da demenza in tutto il mondo non hanno ricevuto una diagnosi, anche perché spesso la malattia si affronta all’interno delle mura di casa, con uno stigma sociale, che sta diminuendo, ma che ancora esiste.

«Quando arriva la diagnosi di Alzheimer in una famiglia entra il dolore. Dolore che può creare risposte diverse, a seconda della storia, delle esperienze, del carattere. Sia dell’individuo che lo vive, che della famiglia complessivamente». A parlare è Patrizia Spadin, presidente dell’Aima, la prima associazione per malati di Alzheimer in Italia.

Le associazioni sono fondamentali: l’Alzheimer cambia le persone e a volte è necessario un vero e proprio percorso formativo e informativo, per comprendere certe reazioni del malato e sapere dare le giuste risposte. L’Aima, come molte altre associazioni, offre un numero verde gratuito e un supporto psicologico ai familiari, ma non si può lasciare tutto alla buona volontà delle associazioni. Anche per questo, nel 2023 è nato l’Intergruppo parlamentare per le neuroscienze e l’Alzheimer, su iniziativa dell’onorevole Annarita Patriarca (Fi) e della senatrice Beatrice Lorenzin (Pd), supportate proprio da Patrizia Spadin e dal Presidente della Società italiana di neurologia (Sin), Alessandro Padovani.

«Abbiamo cercato di promuovere una condivisione di obiettivi con i parlamentari di tutti gli schieramenti – dice Spadin -. Ci battiamo per creare reti di cura che si facciano davvero carico del paziente per tutta la durata della malattia e non solo quando il paziente è quel vecchietto simpatico che ama socializzare. Ci sono centinaia di migliaia di malati che hanno un reddito bassissimo, che non hanno caregiver disponibili h24 e che hanno problemi comportamentali molto forti, che rendono difficile seguirli, assisterli, accudirli e conviverci. E quelli sono pazienti dimenticati dallo Stato, ma anche dagli uomini».

A livello mondiale, quasi l80% della popolazione è preoccupata di sviluppare una demenza e una persona su quattro pensa che non ci sia nulla da fare per prevenirla. Oltre il 50% dei caregiver, inoltre, ha sofferto a causa delle proprie responsabilità assistenziali, pur esprimendo sentimenti positivi riguardo al proprio ruolo.

L’Alzheimer è una malattia che coinvolge l’intera famiglia, ma che in un certo senso può rappresentare anche un’opportunità, per riscoprire e appianare legami. Per me è stato così: mio padre aveva un Alzheimer moderato, che mi ha costretto a trovare una via alternativa di comunicazione, portandomi a scoperte e avventure anche storiche. Ne è nato un podcast, Smemorati, prodotto dal Chora Media per GE Health care.

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