Focalizzarsi, ma senza dimenticare la peripheral vision. Agire con determinazione, ma con una lettura della realtà che non sia il classico plan-do-check-act. Approfondire le hard skill nel nuovo scenario, ma sapendo che oggi le soft skill non sono più solo quelle relazionali, ma anche quelle che saldano i vari livelli in una visione strategica, che va condivisa e sostenuta con la motivazione. Eccola la sintesi estrema di quella che, a mio avviso, sarà la formazione manageriale nel post Covid-19.
Benvenuti nel new normal, quindi. Ovvero, per dirla tradendo un famoso titolo di Gabriel Garcia Márquez, ecco a voi la formazione manageriale ai tempi del (nuovo) colera.
Tutti avevamo aderito all’idea per cui “nothing will be the same”, ma ora che vediamo quanto sia difficile comprendere il mondo del post Covid-19, e ancor più trovare prospettive per gestire aziende in difficoltà, la retorica del “ripensiamo il mondo in modo nuovo” è svanita e ha lasciato spazio a una grande fatica, intellettuale e operativa.
Ora la retorica del “ripensiamo il mondo in modo nuovo” è svanita e ha lasciato spazio a una grande fatica, intellettuale e operativa
In premessa, sappiate che l’autore di queste righe conosce la fatica delle trincee, e non lo dico tanto per la Academy che ho il piacere di dirigere, quanto per l’intero settore: anche la formazione risente dell’attuale clima, e ancor più viene considerata da molte aziende un “nice to have” che ci si può permettere in tempi di pace, non certo in tempo di guerra, a cui assomiglia questo presente.
Invece, è nel cuore di una guerra che si intravedono le condizioni per il futuro, quel tempo di ripresa globale e senza altri tipi di tensioni (da trade war, o meglio tech war) che ci auguriamo ritorni. Ammettiamolo: tutti vorremmo avere la certezza che, come diceva Ermanno Olmi riferendosi a realtà ancor più drammatiche, “torneranno i prati”, i prati di una situazione economica non dico florida, ma almeno normale. La storia di un new normal molto più complicato non è roba di questi mesi, ma era stata ipotizzata almeno dieci anni fa da un giornalista del New York Times, e oggi dobbiamo conviverci senza illusioni.
Vediamo, dunque, i due versanti della formazione manageriale cui accennavo all’inizio.
Da un lato abbiamo vari strumenti interpretativi della nuova realtà, che potremmo annoverare fra le cosiddette hard skill: strumenti digitali molto sofisticati per capire le evoluzioni possibili, con il passaggio sempre più strutturato da una visione della finanza o del controllo di tipo ricognitivo (business intelligence) a un utilizzo dei dati di tipo predittivo e in certi casi anche prescrittivo, con la business analytics che non si limita a fotografare una situazione economica o finanziaria dell’azienda, ma arriva a disegnare scenari o anche, nel caso dell’utilizzo prescrittivo, a indicare il percorso per raggiungere un obiettivo, che sia il salvare il cash flow o arginare la crisi di vendite.
Dall’altro lato, non ci si deve affidare solo a finanza, tecnologia e applicativi digitali, ma usare lo strumento più antico del mondo, vale a dire il “pensiero”, magari anche il pensiero laterale e quella declinazione e/o superamento di esso che è stata elaborata da due studiosi di Wharton, George Day e Paul Schoemaker, autori della teoria della peripheral vision che citavo all’inizio. Sulla scia di alcune delle ultime proposte che si registrano nelle sedi più autorevoli: abbiamo la società ICT Splunk che propone una “modern digital enablement checklist” per aiutare a colmare “the last mile gap” verso una organizzazione cloud based; c’è il paper, uscito il 6 agosto sulla MIT Sloan Management Review, che invita a considerare come la “frugal economy”, che esisteva già prima del Covid, sia ormai una realtà da trilioni di dollari. O ancora, lo studio della World Bank che segnala l’agricoltura del continente che più crescerà nei prossimi anni, l’Africa, come un settore che arriverà entro il 2030 a oltre a un trilione di dollari l’anno.
Questi tre esempi sono suggestioni per dire che, nel caso di un manager, l’esigenza di focalizzarsi su strumenti precisi non può esimerlo dal considerare ciò che è in apparenza periferico, marginale, o meno strutturato.
La dicotomia centro/periferia del business è il primo diaframma che è opportuno oltrepassare. Il secondo è quello fra hard e soft skill: dietro la marea di webinar (non tutti certo di pari qualità) sull’utilizzo delle risorse in tempi eccezionali, o dietro le “ricette” per coinvolgere al meglio i collaboratori in smart working (molto deludente, la formazione manageriale basata sulle “ricette”), vi è comunque una reale necessità di rivedere stili manageriali e di team building.
La dicotomia centro/periferia del business è il primo diaframma che è opportuno oltrepassare. Il secondo è quello fra hard e soft skill
La stessa idea di leadership va ripensata per offrire ai manager idee per poter “stare” nella crisi, perché quell’idea non può più semplicemente essere declinata nel nuovo contesto con una revisione della teoria innatista, o di quella situazionale, o della più recente transformational leadership. A tal fine, oltre a segnalare le proposte che le business school più famose stanno offrendo (come esempio, il programma “Crisis leadership: navigating through difficult times” della Columbia Business School), ci sono alcune direzioni meritevoli di attenzione.
Innanzitutto, è ora che i manager conoscano alcune basi delle neuroscienze, perché il profilo psicologico dell’interlocutore – sia il titolare, un collega o collaboratore, un fornitore o cliente con cui si negozia – è sempre più importante, per i motivi di incertezza che ben conosciamo.
Secondo, questo è il momento giusto per avviare qualche analisi di tipo non tradizionale, ad esempio di “behavioral economics”.
Terza direzione, oltre alla giusta enfasi sui big data, l’attenzione agli small data diventa cruciale, come indica il neuromarketing (ad esempio, Martin Lindstrom).
Quarto e ultimo, concentrarsi su sostenibilità ed economia circolare in maniera trasversale.
Certo è che, con un mondo così complesso e mutevole, nessuno può nutrire ancora dubbi sulla necessità del life-long learning.