Ci siamo, hanno capito! Nel lessico degli Organi decisori, oltre al tema pur importante delle infrastrutture, fa la comparsa il loro impiego ordinato e soprattutto coordinato con l’utilizzatore e il bacino di riferimento integrato tra produzione e consumo. In parole povere, la logistica.
Ignota fino a un paio di anni fa nel nostro Paese, preso com’era nel seguire l’industria del cemento infrastrutturale, oltremodo ascoltata nella realizzazione di nuove opere, ma sorda a interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Una scienza che regola i flussi di merci e persone nelle rispettive dignità nella composizione del prodotto interno lordo di un Paese avanzato del terzo millennio, quale quello che viviamo e che consegneremo ai nostri figli e nipoti.
L’Italia con i suoi 60 milioni di abitanti consuma e produce (sempre meno, ma bene) in alcune aree del Paese. È il secondo Paese in Europa dopo la Germania in termini di produzione industriale, eppure la crescita non si vede, l’occupazione reale scende e il debito pubblico è in costante aumento.
Chi scrive non è un economista, ha speso buona parte della propria vita nell’impresa pubblica e privata, in Italia e molto all’estero, e la scena che vede da lontano è molto più nitida di quanto si creda. Intere pagine di giornali hanno fatto passare il tema della mancata crescita collegandolo ai problemi infrastrutturali. Nulla di più falso! Il nostro paese detiene il record in termini di grandi infrastrutture: basti pensare ai 100 e più aeroporti, ai 40 porti per non parlare di rete ferroviaria e viabilità stradale. Eppure, l’allarme sul tema è costante. Perché?
Al netto delle governance editoriali, ben presidiate dai dominus del cemento e da concessionari di opere pubbliche, ben sostenute da certa politica accondiscendente e fiancheggiante, si debbono aggiungere localismi per questioni di consenso elettorale, realizzazioni di opere per la quasi totalità inutili in una visione complessiva di sistema nazionale, e poca, pochissima manutenzione ordinaria e straordinaria.
Il risultato emerge in tutta la sua semplicità: siamo un paese di furbi, con qualche eccezione che con tutta evidenza decide di posizionasi altrove nel Pianeta. Eppure nel Dopoguerra l’Italia marciava. Certo, con un sostenuto piano Marshall che ha accompagnato quegli anni, ma erano i tempi della grande impresa pubblica, della spina dorsale di un Grande Paese che si risollevava, con i Valletta, gli Olivetti, l’impresa chimica, la metallurgia, con la riforma agraria di Fanfani. Cosa è successo quindi?
La risposta è nell’assalto alla diligenza, in quelle privatizzazioni teleguidate e sostenute con la grancassa mediatica della pur vera corruzione pubblica, a cui faceva da contraltare un corruttore privato, che di commesse pubbliche si nutriva. E su quell’onda abbiamo distrutto un patrimonio dalla massa critica importante in grado di reggere l’urto della domanda globale che sarebbe intervenuta negli anni a seguire e che da noi, al contrario, ha visto lo spezzettamento delle imprese per meri fini finanziari e del “salotto buono nazionale”. Nasceva il motto “piccolo è bello”, i cui risultati stiamo pagando amaramente in termini di offerta verso un mercato composto da una platea di miliardi di consumatori, perdendo in competitività.
L’Italia è attraversata da quattro grandi corridoi europei ed è al centro del Mediterraneo, è più vicina a Suez di quanto non lo sia Amburgo. Eppure, tutti i 40 porti italiani nel complesso non sviluppano i volumi della città tedesca, da cui poi discendono le merci verso il nostro Paese.
Questo accade perché i nostri porti sono strutture di provincia, nella maggior parte dei casi guidati da una governance priva di competenze che, sostanzialmente, “vivacchia”. A questo si aggiungono l’accanimento e la protervia di infrastrutture nate nel ‘500 a ridosso degli Appennini, che non hanno le caratteristiche di retroportualità e intermodalità richieste oggi, con treni da 750 metri, che consentano collegamenti continentali. Perché al Pireo, oggi cinese, non rispondiamo con Taranto, ma continuiamo caparbiamente con Genova?
L’area più produttiva del Paese, quella che va da Milano, Bologna, Verona, è priva di un aeroporto cargo. L’Alitalia ha delegato completamente il cargo alla francese Air France e all’olandese KLM, che attraverso il fenomeno dell’aviocamionato trasferiscono le merci a Parigi o ad Amsterdam.
Serve un’inversione netta di gestione industriale, senza se e senza ma, forse una nuova I.R.I. illuminata da una visione ampia e alimentata da vere professionalità, e una presa di coscienza che il sistema dell’Eurogruppo ha fallito la sua missione sociale. O più semplicemente, è un tema di scelta di uomini capaci e pronti a sfide strategiche, e di scelte politiche coraggiose.
Carlo Mearelli, Presidente di Assologistica