«Spesso, soprattutto per le posizioni di vertice, si sentono uomini affermare che non è possibile trovare donne con il profilo giusto… Bene: se le cercate davvero, siete in grado di trovarle». Presenziando alla presentazione dell’ultimo Gender diversity index di Ewobs, l’associazione European women on boards, Ursula von der Leyen ha foggiato il suo sguardo più gelido e fermo. Basta scuse, ha detto in sintesi, basta rinvii: sono dieci anni che la Commissione ha proposto il target del 40 per cento di presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle società europee quotate in Borsa. Dieci anni di sforzi per ottenere una legge non hanno dato risultati. Anzi, hanno incontrato un blocco insormontabile. È il momento di cambiare.
La quota 40 a cui ambisce la Presidente della Commissione non sembra lontana: nell’universo delle 668 imprese – in 19 Paesi – incluse nell’indice Ewobs nel 2021 si è registrata una presenza femminile, a livello manageriale, pari al 35%. La percentuale si assottiglia salendo ai piani alti delle imprese. È del 19% tra gli executive, del 16% tra i Cfo, del 7% tra i Ceo. E nel 17% di poltrone rinnovate nel corso dell’anno, solo il 30% ha visto vincere le donne.
Nel 2021, nell’universo delle 668 imprese – di 19 Paesi – incluse nell’indice Ewobs (European women on boards), si è registrata una presenza femminile, a livello manageriale, pari al 35%
Non tutti i Paesi sono allo stesso livello, naturalmente, ma è indubbio che una parte del percorso è stato fatto. Ma se è stato fatto è solo grazie all’imposizione per legge di quote. Le ha messe per prima la Norvegia nel 2003, da noi si è dovuto aspettare il 2011 per la legge Golfo – Mosca, che ha introdotto le quote per le nomine di donne nelle società pubbliche e in quelle quotate in Borsa, nella misura del 30% all’inizio, ora portata al 40. Livello a cui punta adesso anche la Francia.
Sebbene a giudizio di molti le quote mortifichino le donne stesse, perché ne impongono la presenza (e con ciò, affermano i critici, si viola la meritocrazia), le leggi funzionano: aprono le porte al merito, scardinano posizioni di potere consolidato, mettono in crisi gli inamovibili. E sono importanti perché spostano gradualmente il confine entro il quale il mondo maschile ha costretto le donne nel mondo del lavoro (e nella società). Un confine che solo quando sarà raggiunta la parità – cioè l’indice 1 – potrà davvero dirsi abbattuto.
Oggi quell’indice appare una chimera. Siamo sotto, in Europa, con un indice medio della parità di genere che anche nei Paesi più avanzati in termini di partecipazione femminile al lavoro e alla leadership non supera lo 0,80 (l’Italia è a quota 0,62). Eppure il 2021 ha segnato un progresso, nella conquista da parte delle donne di posizioni sempre più apicali nel mondo delle imprese: 84 imprese sulle oltre 600 selezionate possono vantare un indice della parità di genere superiore allo 0,80, e rappresentano le “best practice” a livello continentale, i modelli da seguire. In Italia sono per esempio Unicredit, A2A, Fineco, Reply.
Questi nuovi record non cancellano però la generale sottorappresentazione delle donne nel mondo del lavoro. Non eliminano quel veder continuamente messa alla prova la loro competenza, messa in dubbio la loro autorità, minata la loro sicurezza persino ai livelli più alti. Vittime, spesso, della maledizione delle “only”. Le donne che si trovano da sole a rappresentare il loro genere nella stanza, nella riunione del consiglio, nel contesto di lavoro, vengono sottoposte a un esame al microscopio, sono oggetto di critica, vengono ridicolizzate come stereotipi negativi della donna manager. Un trattamento che la stessa von der Leyen ha subito, con Erdogan e con il ministro ugandese Odongo Jeje.
Per non parlare dell’esperienza vissuta da molte manager durante il Covid. E non solo per il fatto di dove tenere insieme lavoro e famiglia, esercizio diventato sempre più acrobatico, ma per la prestazione richiesta a chi esercita una leadership nel posto di lavoro: prestazione di sostegno, comprensione, adesione alle improvvise richieste di emergenza che la pandemia ha comportato. Nelle aziende, sempre più numerose, che hanno abbracciato l’idea che il benessere dei propri dipendenti sia un valore da preservare e l’hanno trasformato quindi in un obiettivo per i propri manager, ecco che le donne sono state chiamate in trincea a dare il massimo per supportare i propri team, e l’hanno fatto al meglio. Ma l’hanno anche pagato caro. Come? Con un aumento della sindrome del “burnout”, lo stress, con annessa voglia di mollare tutto. Non è un caso che uno degli effetti del Covid si sia tradotto nell’addio volontario di molte donne al proprio lavoro.
Quali sono le leve con cui le manager possono continuare a chiedere spazio nel loro percorso di carriera? Molti studi hanno tentato di misurare l’effetto dell’ingresso delle donne nelle stanze dei bottoni, e i risultati ci sono. Ecco come li riassume la Banca d’Italia nella sua analisi d’impatto della regolamentazione sulle quote di genere per quanto riguarda le banche: «È stato rilevato che, rispetto agli uomini, le donne: a) partecipano con maggiore frequenza alle riunioni dei board; b) dedicano più tempo all’analisi di decisioni complesse, contribuendo a ridurne gli effetti negativi sugli stakeholders; c) mostrano un dissenso più costruttivo, anche per la loro maggiore predisposizione a porre domande e a mostrarsi in disaccordo con la posizione dominante; d) esercitano un maggiore monitoraggio sui sistemi di remunerazione degli amministratori delegati; e) sono più preparate e orientate a obiettivi di lungo periodo. La presenza delle donne nei board è stata associata a un aumento del numero di dimissioni degli amministratori che hanno conseguito scarsi risultati di performance, a una maggiore diversificazione delle competenze e a un miglioramento della reputazione aziendale. Le donne possono svolgere un ruolo più indipendente anche perché sono generalmente escluse dai network composti da uomini anziani». Se non è una rivoluzione questa.