“Sul fronte delle startup l’Italia è in grande ritardo rispetto ad altri Paesi, come già l’Europa rispetto agli Usa. In Silicon Valley hanno iniziato quarant’anni fa, New York è partita quindici anni fa e Londra cinque anni dopo. Se l’Europa continentale è indietro, possiamo dire che l’Italia deve ancora iniziare a muoversi”.
È molto severo il giudizio di Alberto Onetti, chairman di Mind the Bridge, la fondazione californiana creata nel 2007 da Marco Marinucci che punta a creare e a far crescere le idee innovative italiane negli Stati Uniti. Il 5 febbraio 2018 a Roma, in occasione dello #startupday organizzato dall’agenzia AGI, Onetti ha presentato il rapporto di Mind the Bridge e Startup Europe Partnership “Scaleup Italy, il polso del sistema startup in Italia”. Una fotografia a tinte fosche del contesto italiano.
“L’Italia – spiega Onetti – oltre a essere partita in ritardo viaggia a una velocità di crociera molto bassa. Che si misura facilmente: l’anno scorso sono stati investiti in venture capital circa 100 milioni, in Francia erano 2 miliardi, in Germania qualcosa in più, in Inghilterra fra i 4 e i 5. Per restare a Paesi paragonabili al nostro, la Spagna ha investito 600 milioni. Altri più piccoli ed emergenti, come il Portogallo o alcuni stati dell’Est Europa, viaggiano a velocità superiori alla nostra”.
Per quale motivo sul fronte delle startup l’Italia è ferma al palo?
“Purtroppo la costante sono gli scarsi investimenti. Un dato strategicamente preoccupante perché nel frattempo Paesi vicini stanno diventando molto attrattivi per i nostri startupper e imprenditori.
Nel nostro rapporto c’è una sezione dedicata alle “dual companies” che sono startup che a un certo punto della loro esistenza hanno spostato un settore di attività all’estero, di solito Silicon Valley o Londra, per avere accesso a finanziamenti “late stage” per la crescita.
Un dato stragicamente preoccupante sono gli scarsi investimenti; nel frattempo, paesi intorno all’Italia stanno diventando molto attrattivi per i nostri startupper e imprenditori. Uno scenario certo non ottimale.
Uno scenario non ottimale ma comunque qualcosa, dato che un piede resta in Italia.
Oggi, nella situazione in cui ci troviamo, si sta prefigurando una prospettiva peggiore: paesi come il Portogallo stanno diventando molto più attrattivi anche per accompagnare le nuove aziende nel “primo miglio”, per cui il rischio che l’imprenditore si sposti anche per fare il primo passo si fa concreto.
A quel punto in Italia non rimarrebbe alcunché e, dopo la fuga dei cervelli, assisteremmo a quella degli imprenditori”.
Lei ha suggerito di immettere due miliardi di fondi pubblici nel settore. È questa la ricetta per colmare il gap di investimenti nel mercato italiano?
“Dobbiamo strutturare una dimensione di investimento che renda l’Italia interessante per gli imprenditori, altrimenti rischiamo di non uscire più da questo processo di marginalizzazione. Per invertire la tendenza l’unica cosa da fare è iniettare nel sistema una dose di capitali “n” volte superiore all’attuale. Se il privato da solo non ce la fa, credo spetti al pubblico intervenire. La forma tecnica dipende da mille variabili, ma credo che esistano formule che possano prevedere un “fondo dei fondi” o una struttura in cui si immette capitale pubblico come “limited partner” di fondi privati.
In Israele, ad esempio, per ogni euro investito in capitale privato arriva un contributo di capitale pubblico corrispondente. In Italia storicamente si sono seguite due strade: quella che passa per le agevolazioni fiscali sugli investimenti, che ha prodotto un qualche risultato visto che nel 2016 c’erano 86 milioni di capitale agevolato investito, oppure quella del credito agevolato attraverso un fondo di garanzia. Però manca ancora l’ingrediente più importante, ossia un’industria venture capital in crescita”.
Nel sistema un ruolo importante ce l’hanno i cosiddetti “business angels”, ossia persone che “adottano” una startup, la finanziano e l’aiutano investendo capitale ma anche esperienza, conoscenze e contatti. In Italia esistono realtà di questo tipo?
“Ci sono dei gruppi, come quello di Iban che è decisamente il più dinamico. Il problema, ancora una volta, è quello della filiera, direi della catena alimentare.
Il mondo dell’innovazione si basa su investitori che intervengono nelle diverse fasi del ciclo di vita di un’azienda.
Ci sono quelli che si occupano della fase seminale come fondi di seed, acceleratori, business angels, poi ci sono venture capital che intercettano capitali più consistenti e, infine, dovrebbero intervenire il mercato della borsa dove liquidare parte degli investimenti oppure il mercato di mergers & acquisitions.
Mentre in Silicon Valley la via maestra per crescere è l’acquisizione, in Europa questa è una via ancora poco battuta. Resiste infatti una cultura che si basa non sull’acquisizione di competenze e talenti ma sull’idea di fare le cose in casa.
In Italia mancano interi pezzi di questa catena: ad esempio le grandi aziende che comprano startup, e ciò crea inevitabilmente un tappo tale per cui i capitali investiti restano bloccati. Poi la borsa in Italia (come in tutta Europa in realtà) al momento non è ancora un punto di possibile approdo per questi soggetti perché ha requisiti e criteri troppo complicati. Se la filiera non si struttura è difficile che chi ha già investito continui a farlo se non ha un ritorno”.
Esiste anche un problema di mancanza di competenze manageriali adatte e di formazione in linea con i nuovi tempi del mercato e della tecnologia?
“Credo che in Europa, a livello di imprese, sia ancora forte una cultura che si basa sull’idea di fare le cose in casa propria e non quella invece dell’acquisizione di competenze. Mentre in Silicon Valley la via maestra per crescere è l’acquisizione, e Google compra un’azienda alla settimana anche solo per aggiudicarsi talenti e competenze, da noi questa è una via ancora poco battuta.
Ma manca probabilmente anche un livello di cultura manageriale abituato a questo modus operandi e a riconoscere che un’azienda dopo un certo periodo di tempo perde la sua spinta innovativa e quindi ha bisogno di importare competenze dall’esterno. In Italia, poi, c’è anche un problema di nanismo della struttura industriale che fa sì che il livello delle competenze manageriali sia necessariamente meno sofisticato”.
* giornalista professionista