Ben 308,29 miliardi di yuan, ovvero 58,8 miliardi di dollari. A tanto ammontano nei primi nove mesi del 2023 le perdite economiche dirette subite dalla Cina a causa di disastri naturali come piogge torrenziali, frane, grandinate e tifoni. Almeno 499 persone sono state dichiarate morte o disperse su oltre 89 milioni di persone colpite. Oltre 2,75 milioni di residenti hanno subito evacuazioni e reinsediamenti.
I numeri rilasciati a metà ottobre dal Ministero cinese per la Gestione delle emergenze certificano danni senza precedenti per il Paese asiatico a causa di eventi climatici e calamità naturali. Nel periodo considerato quattro tifoni hanno causato pesanti perdite, inondazioni improvvise e centinaia di frane nelle aree meridionali, mentre il Nord e il Nord-est della Cina hanno subito forti piogge con un numero di evacuazioni record.
Il “bollettino di guerra” restituisce una fotografia chiarissima dell’impatto del cambiamento climatico oltre la Muraglia. Secondo il “libro blu” compilato dalla China Meteorological Administration (Cma), agenzia affiliata al consiglio di Stato, tra il 1951 e il 2020 nel Paese la temperatura è aumentata di 0,26°C ogni dieci anni, “un tasso evidentemente più alto” rispetto alla media globale dello stesso periodo, che si è attestata allo 0,15°C per decennio.
Per quarant’anni, l’ex fabbrica del mondo ha perseguito un modello di crescita a tappe forzate con licenza di inquinare, facendosi carico della produzione a basso costo per conto delle economie occidentali. Tanto che nel 2019, circa il 24% delle emissioni di CO2 prodotte a livello globale proveniva proprio dalla Repubblica popolare, al primo posto tra tutte le nazioni, seguita da Stati Uniti (11,6%) e India (6,8%). Questo processo di sviluppo ha avuto effetti devastanti non solo in termini di riscaldamento globale. Basti pensare che la Cina si è classificata al 67° posto tra i 191 stati presi in esame dal Inform Risk Index della Banca Mondiale, il ranking che valuta l’esposizione ai disastri naturali.
Nel 2019, circa il 24% delle emissioni di CO2 prodotte a livello globale proveniva proprio dalla Repubblica popolare, al primo posto tra tutte le nazioni, seguita da Stati Uniti (11,6%) e India (6,8%)
Il successo economico ha un prezzo salato: nel mese di agosto il tifone Doksuri è costato solo alla provincia cinese dello Hebei oltre 13 miliardi di dollari. Stando a uno studio pubblicato su Natural Hazards and Earth System Sciences, con un aumento della temperatura di 1,5°C le perdite economiche in caso di inondazioni “lievi” potrebbero raggiungere i 70 miliardi di dollari l’anno. Costi destinati a raddoppiare qualora il riscaldamento fosse di 2°C.
Gli effetti indiretti non sono meno preoccupanti. Secondo il Governo negli ultimi nove mesi almeno 9,71 milioni di ettari di colture sono stati compromessi da eventi naturali. Pesantemente colpiti i raccolti cinesi di riso, soia e mais, con maggiori pressioni sull’inflazione in un momento in cui il governo sta lottando non solo per rilanciare l’economia. Ma anche per stabilizzare gli approvvigionamenti alimentari, messi a repentaglio dalla guerra in Ucraina.
Quel che preoccupa di più, sul lungo periodo sarà proprio il motore della crescita cinese – la costa orientale – ad avvertire maggiormente la minaccia del climate change. Circa il 45% della popolazione cinese e più della metà della produzione economica del Paese provengono dalle regioni rivierasche, dove sono concentrate importanti metropoli quali Shanghai, la città portuale di Tianjin e la “Silicon valley” cinese, Shenzhen. Secondo il Ministero delle Risorse naturali, nel 2022 il livello del mare lungo il litorale ha superato di 94 millimetri i valori “normali”, l’incremento più elevato da quando sono iniziate le registrazioni nel 1980. Secondo un modello predittivo della East China Normal University di Shanghai, senza misure di adattamento tempestive, inondazioni catastrofiche potrebbero travolgere la megalopoli entro la fine di questo secolo. Più di 4.200 chilometri quadrati – ovvero il 62% della superficie urbana totale – rischiano di essere sommersi con una profondità media di 1,2 metri.
La genesi del problema? Un utilizzo massiccio del carbone, la fonte energetica (fino a poco tempo fa) più economica e facilmente reperibile in Cina. Nel 2021, Pechino si è dato come obiettivo di raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030 e la neutralità carbonica entro il 2060. Lo scorso anno, oltre la Muraglia, 546 miliardi di dollari sono stati destinati allo sviluppo di energia solare ed eolica, di veicoli elettrici e di batterie, di cui la Repubblica popolare è il primo produttore mondiale. Cifre che superano di quattro volte gli investimenti negli Stati Uniti. Eppure, come dichiarato recentemente da Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, “la Cina finora non si è impegnata abbastanza”.
Nel 2022 Pechino ha approvato nuovi progetti per la costruzione di centrali elettriche a carbone per un totale di 50 Gigawatt, il livello maggiore degli ultimi otto anni, sebbene non è chiaro se i nuovi impianti verranno effettivamente attivati o se invece verranno impiegati esclusivamente con funzioni di backup. Solo nel mese di giugno 2023 il carbone ha occupato il 14% del mix energetico in più rispetto allo stesso mese nel 2022. Dati che evidenziano come le municipalità cinesi fatichino a reperire alternative per la produzione di elettricità dopo la grave crisi energetica dell’autunno 2021. Anche se ormai i costi dell’energia eolica e solare in Cina sono scesi ai livelli dei combustibili fossili.
Svincolarsi dal carbone non è un’impresa facile: il deficit di infrastrutture complica ancora il trasferimento dell’energia prodotta dalle rinnovabili nelle province occidentali (le più ricche di risorse naturali) verso il cuore manifatturiero del Paese lungo la costa. Non solo. Nel 2020 circa 2,6 milioni di persone in Cina si guadagnavano ancora da vivere estraendo, lavando e selezionando il carbone. Secondo un rapporto pubblicato recentemente dall’Ong americana Global Energy Monitor, entro il 2050 le miniere della provincia dello Shanxi, importante hub estrattivo, potrebbero dover tagliare 241.900 posti di lavoro per soddisfare gli obiettivi ambientali del governo cinese. Il tutto in una fase in cui Pechino fatica a domare la disoccupazione.