Benedetta Tagliabue è un grande ingegno italiano che, attraverso architetture innovative e visionarie, crea bellezza nel mondo. La intervistiamo in collegamento dall’headquarter del suo studio, l’EMBT con sede in Spagna, a Barcellona.
Photo credit: Silvia Conde
Benedetta Tagliabue, titolare dello Studio internazionale di Architettura EMBT
Architetto, le città attraversano processi di evoluzione continua e l’architettura crea spazi nuovi. Spazi che devono essere in grado di dialogare con l’ambiente circostante. Cosa vuol dire oggi, per lei, disegnare il paesaggio?
Guardi, io ritengo che l’umanità abbia sempre avuto tra i suoi obiettivi primari l’idea di disegnare il paesaggio e organizzare gli spazi, ma negli ultimi anni è notevolmente aumentata la sensibilità sui temi ambientali, ciò che io definirei la coscienza di provare a salvaguardare un pianeta arrivato ormai al limite. Per dirla in breve, adesso siamo più consapevoli di dover migliorare le cose e si è sviluppata un’attenzione che forse quindici o vent’anni fa non esisteva. Con alcuni colleghi architetti capita talvolta di commentare l’inattualità di edifici che erano famosi vent’anni fa, ma adesso sono considerati irrimediabilmente superati. Parlo di edifici in vetro, cemento, ferro, materiali che all’epoca erano ritenuti contemporanei, funzionali e interessanti. Oggi l’istanza emergente si esprime nella costruzione di architetture integrate davvero con il verde e l’ambiente. Si cerca di lavorare a città che siano vicine, in senso proprio, alla natura.
È quanto emerge chiaramente dai vostri progetti più recenti, mi ha colpito in particolare il “Bamboo cultural experience centre” nella provincia cinese del Sichuan…
Sì, in quel caso ci è stato richiesto di intervenire nel cuore di una delle foreste di bambù più grandi al mondo. Abbiamo avuto l’incarico di realizzare un centro di interpretazione in cui sia evidenziata l’importanza di una pianta come il bambù, che da millenni in Oriente è considerata simbolo di vita. Una pianta che in prima battuta può sembrare fragile, ma dimostra in realtà grande resistenza e diversissime possibilità di applicazione. La nostra visione ha inteso integrare nell’architettura tutte queste caratteristiche, evidenziandone anche la flessibilità e la capacità di rigenerarsi.
Si parla tanto di sostenibilità, ma bisogna scongiurare il rischio di “banalizzare questo concetto”, come lei ha più volte affermato. Che intende di preciso?
Io credo sinceramente che il tema della sostenibilità sia di fondamentale importanza, non c’è dubbio. Possiamo chiamarla così oppure definirla, in un’accezione più mirata, come “coscienza ambientale”, per intenderci. La realtà ci dice tuttavia che, nonostante siano stati realizzati numerosi codici e notevoli interventi normativi, su più livelli, per incoraggiarla, molte organizzazioni ancora predicano la sostenibilità, ma nei fatti non la praticano. Il rischio quindi di operazioni diffuse di “greenwashing” è percepibile un po’ ovunque; molti sanno che un’immagine sostenibile attribuisce un valore aggiunto, non solo in termini reputazionali, e quindi provano a raccontarsi così. Allora diventa difficile spesso distinguere un approccio autentico al tema rispetto a prese di posizione meramente simboliche. Occorre fare molta attenzione.
Altro tema importante: al di là degli evidenti impatti ambientali, l’architettura ha inoltre una notevole funzione sociale…
Certamente. È enorme la funzione che l’architettura può svolgere nel far sì che la società sia più giusta e prospera. Ma gli architetti sono spesso vincolati dalle richieste di clienti che esigono risultati specifici e rispondenti ai loro obiettivi. Tuttavia, non bisogna rinunciare all’ambizione dell’architettura di influenzare positivamente gli spazi pubblici e si deve insistere sulla comprensione di come applicarla in maniera che la società possa migliorare. Le faccio l’esempio, di cui mi sono occupata, del centro “Kalida” a Barcellona, che fa parte del network Maggie ed è pensato perché i pazienti di cancro si sentano come a casa, immersi in uno spazio architettonico e ambientale bello, posto vicino a un complesso ospedaliero. Se in tutte le città si riuscisse a lavorare alla creazione di spazi ben disegnati e pienamente vivibili, avremmo di certo persone – e quindi comunità – più felici.
Con lei collaborano numerosi professionisti, anche molto giovani, provenienti da tante parti del mondo. Quanto conta una forte capacità manageriale per gestire un grande studio di architettura come il suo?
Conta molto, perché uno studio, soprattutto se di dimensioni notevoli, deve procedere secondo un’organizzazione ben precisa ed efficiente. La visione di management esercitata ha un’influenza diretta sui risultati e deve quindi sposarsi pienamente con gli obiettivi che l’architettura vuole conseguire. Più volte ho avuto modo di confrontarmi con figure manageriali di spessore, affinché mi supportassero in una visione che si riflettesse poi in una buona architettura: sperimentale, rivolta al futuro e consapevole degli impatti ambientali e sociali.
Un’ultima domanda, per chiudere: lei si trova da tanti anni all’estero e opera con grande successo in tutto il mondo. Che rapporto ha con l’Italia?
Mantengo un’enorme ammirazione verso l’Italia e verso le tante intelligenze italiane. Con il passare del tempo e andando in giro per il mondo, mi viene spesso da pensare al mio Paese: un luogo in cui grandissime difficoltà geografiche incontrano meraviglie e con una storia segnata da fasi difficili che ha generato però una straordinaria resilienza. Il risultato di questo mix è la maturazione di un popolo, per meglio dire di gente che ha la capacità di muoversi bene dappertutto. Avverto fortemente le mie radici e credo che lo spirito italiano abbia una capacità peculiare di inventare cose magnifiche che prima non esistevano. Potremmo proprio parlare di una nostra creatività distintiva. E nelle fasi complesse, come quella che stiamo attraversando, sappiamo davvero tirare fuori il meglio.