Guido Stratta
Negli ultimi anni la pandemia e gli eventi bellici hanno rotto l’equilibrio esistente nella nostra società fondata sul consumo e sulla globalizzazione.
Questi fenomeni avevano accentuato il divario tra chi aveva accesso alle ultime innovazioni internet, smartphone e social media, e chi no; dall’altro avevano reso simili tutte le persone, in un’omologazione che svilisce ciò che rende gli esseri umani unici: le loro emozioni, i loro talenti, le loro capacità.
Da marzo 2020, questo processo, che sembrava inarrestabile, si è fermato e ha lasciato spazio a un nuovo modo di vivere e lavorare, in cui la relazione, la cura, l’ascolto sono tornati ad essere la linfa vitale e salvifica dell’essere umano.
L’esperienza dello smart working ha reso infatti inevitabile affrontare il tema della trasformazione culturale, intesa come ripensamento dei valori che guidano le persone e le organizzazioni.
Inoltre, ha chiarito la centralità non solo e non tanto delle competenze hard, quanto dei saperi di prossimità delle persone, quell’insieme di conoscenze intangibili che non si possono apprendere dai libri ma solo dalle esperienze e dagli incontri con l’altro.
Siamo dunque nel bel mezzo di una trasformazione culturale in cui saranno le persone a scrivere una nuova storia. E, in quest’ottica, il lavoro come elemento centrale dell’esistenza di ogni essere umano, sarà lo spazio in cui meglio saremo chiamati a dare forma ad una nuova “economia della cura”. Occorrerà abbandonare il dipendere per l’intraprendere, in linea con le proprie vocazioni.
L’emergenza diventa dunque come uno di quegli incontri imprevisti che generano opportunità. Le capacità delle persone saranno come gli anticorpi delle imprese, attaccate dalla necessità stringente di essere sempre più veloci e flessibili per reagire alla crisi.
In questo ripensamento a tutto campo del lavoro, che si fa “liquido” e perde i netti confini spazio – temporali che lo contraddistinguevano nel passato, assume una dimensione centrale la relazione umana, che accorcia le distanze, pur apparentemente insanabili, e fonda su nuovi paradigmi lo stare nel fare, affiancando allo stesso la dimensione del sentire.
Il lavoro, come elemento centrale dell’esistenza di ogni essere umano, sarà lo spazio in cui meglio saremo chiamati a dare forma a una nuova “economia della cura”
La leadership gentile, di cui spesso si sente parlare, altro non è che un nuovo meccanismo di cura dello spazio relazionale, basato sulla fiducia e l’ascolto reciproco.
Partendo dall’assunto che la gentilezza non sia da riguardare come debolezza ma come punto nevralgico della relazione umana, si ripensano le strutture gerarchiche del passato come non più consone a un mondo in cui solo insieme possiamo davvero sorprendere, superare la crisi e farne occasione di crescita.
Un leader gentile, dunque, sarà quello in grado di partire dalla lettura del contesto, facendosi portavoce delle reali inclinazioni e dei desideri delle persone che è chiamato a gestire.
Si parte dall’ascolto delle passioni, dalla motivazione e si cerca di creare un contesto in cui si realizza anche il benessere delle persone, affinché i risultati, che pure sono l’imprescindibile obiettivo della gestione del leader, siano i più soddisfacenti per tutte le persone del team.
Un triangolo benessere – motivazione – risultato che genera nuove frontiere e opportunità.
Viviamo, in fondo, una transizione non solo energetica ma anche emotiva: le persone, con le loro vulnerabilità, sono le nuove fonti rinnovabili di energia.
Partiamo dunque dall’ascolto, anche delle paure e non solo dei desideri, per disegnare un contesto lavorativo in cui si possa affiancare il sentire al fare.
L’abitudine del fare può infatti condurci all’alienazione, al non senso e all’intorpidimento.
Anche le regole, i processi e le procedure possono fare altrettanto, purché tutto funzioni.
Siamo tutti alla ricerca di punti fermi e di certezze sulle quali sostare a lungo.
Tuttavia, qualsiasi opera generativa trova origine nel desiderio di un vuoto da colmare (l’incertezza).
Un primo atto del desiderio è verso sé stessi, una spinta alla continua ricerca della propria vocazione, del proprio “perché”, della propria realizzazione.
Essere leader è la risposta a una chiamata. Essere leader è anche desiderio della crescita degli altri.
Creare le condizioni attrattive che rendano possibile la realizzazione dello sviluppo integrale dei partecipanti al team.
Abbiamo bisogno di riscoprire i desideri e le vocazioni di ciascuno, abilitare sogni personali e progetti di felicità che ci facciano sentire a casa. Il proprio posto nel mondo.
I nuovi leader ispirano. Non serve più solo comandare e dare standard operativi.
Le persone hanno bisogno di trovare e scegliere un sistema valoriale in cui riconoscersi e che vedano agito con l’esempio ed i comportamenti.
Essere fonte di ispirazione aiuta il team a capire perché si stanno facendo determinate scelte, perché quegli obiettivi, perché un certo tipo di percorso, perché insieme!
Possiamo offrire la possibilità di un reciproco confronto per incontrare un significato che alimenti la motivazione.
Da dove partire? Dedicare tempo alla ricerca del senso delle cose, comunicare continuamente, non limitarsi a dare direttive come da tradizione della leadership fondata sul comando e il controllo.
Spesso le relazioni sono contaminate da pregiudizi negativi, che col tempo diventano le fondamenta di convinzioni che riteniamo non modificabili.
Stiamo distruggendo la possibilità di attivare fiducia, mettiamo l’altro nella condizione di doverci “dimostrare” di non essere ciò che crediamo sia.
Tutto ciò non è gentile.
Proviamo a immaginare come sarebbe una relazione o l’ambiente di un team, o la percezione che si ha di un’area aziendale, di un fornitore o di un cliente, se partissimo da un pregiudizio positivo.
Si tratta di uscire dalla logica del bisogno proprio per entrare in quella di una “complessità bisognosa” di un leader generatore di contesti.
Le idee non hanno gerarchia, e dedicare tempo all’ascolto è una delle attività che più stanno restituendo benessere ai team.
Ascoltando accogliamo “per definizione” le unicità e le diversità.
Ascoltando, ci incamminiamo insieme nel bel percorso di riconoscimento e fioritura dei talenti, poiché “ci mettiamo” a fattor comune.
Dare tempo all’ascolto è anche una modalità che alimenta fiducia.
Siamo persone, esseri vulnerabili che sbagliano, che non sanno fare tutto, che hanno dei limiti.
Ed è questa una delle bellezze della nuova leadership: risolviamo i punti ciechi attraverso il Noi.
Fare spazio all’errore, saper mostrare i propri limiti, chiedere aiuto, sono nuovi e concreti comportamenti gentili che ancora oggi sorprendono, nel lavoro.
Non possiamo bastare a noi stessi, quindi è ammesso sbagliare.
Il buon leader deve leggere le qualità di tutti e metterle insieme, coprendo i gap esistenti con i punti di forza degli altri.
Se nel team non si può sbagliare è difficile e frustrante lavorare, perché si ha paura.
Ammettere l’errore, esplicitare i propri limiti, chiedere aiuto sono nuovi e concreti comportamenti gentili che ancora oggi sorprendono, nel lavoro e non solo
Questi sono i contorni e la sostanza di una leadership al femminile, capace di generare, contenere, accogliere, indirizzare con senso e muovere alla vita, e al futuro.
Se il vecchio leader è colui che “non deve chiedere mai!”, il nuovo leader è colui o colei che dà e chiede un feedback.
Dare e chiedere feedback è un grande atto di gentilezza, di cura e di reciprocità.
Dare e chiedere feedback genera fiducia, perché nel manifestarmi attento a chi sei e a cosa fai, riconosco i tuoi successi e/o ti invito a riflettere sui miglioramenti, con onestà e trasparenza.
I feedback possono essere positivi e negativi.
Quelli positivi sono di riconoscimento, ristorano, gratificano, perché il ricevente comprende di essere visto e apprezzato.
Quelli negativi sono atti di onestà e trasparenza che necessitano di una contestualizzazione.
Non sono giudizi sulla persona, ma critiche costruttive in merito a uno specifico episodio, con l’invito a riflettere su una modalità comportamentale nuova.
La gentilezza, ripeto, non è debolezza!
Abituiamoci a celebrare i successi, abituiamoci a dire cose positive, perché la comunicazione positiva crea contesti positivi, possibilisti e di benessere.
La comunicazione è un atto di determinazione della realtà, oltre che un motore per l’affermazione di una cultura e di uno stile.
In conclusione, un leader gentile è quello che parte dalla messa in atto di tre codici fondamentali: il codice materno, per cui siamo tutti figli unici, il codice paterno che pone il limite per nutrire il desiderio e, infine, il codice fraterno, che implica un ripensamento dell’io nello spazio relazionale del noi.
La guida autorevole e rivoluzionaria è quella che utilizzerà i tre codici come leve potenzianti di tutte le persone del team, partendo imprescindibilmente dall’ascolto di sé stessa.