Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, poi l’intero sistema comunista e infine l’Urss, molti credettero che ci si avviasse, secondo le parole di George H. W. Bush verso un’Europa «una e libera». La riunificazione tedesca è avvenuta senza particolari difficoltà. L’integrazione nel sistema delle democrazie occidentali, quindi nell’Ue e nella Nato, dei Paesi che facevano parte del blocco di Varsavia presenta risultati a volte controversi, ma il progresso è evidente. Ciò che non ha funzionato è stata la speranza che anche la Russia avrebbe avuto un’evoluzione analoga di convergenza con l’Occidente.
Dopo un avvio caotico ma non privo di speranze, la Russia con l’avvento di Putin al potere ha scelto una strada diversa. Ancora una volta nella sua travagliata storia, le spinte “europee” della società russa sono state sconfitte e il Paese è ricaduto nell’atavico etno-nazionalismo pan-slavista che sembra riportarci non ai tempi di Stalin, ma a quelli dello Zar Nicola I. Nazionalismo che diventa tanto più aggressivo perché si nutre del mito dell’umiliazione subita con la sconfitta nella Guerra fredda e di un preteso accerchiamento da parte dell’Occidente. La mancata convergenza fra Russia e Occidente ha avuto un effetto fortemente destabilizzante su alcuni Paesi, come l’Ucraina, la Georgia e la Moldavia che avevano fatto parte dell’Urss, ne avevano ereditato le debolezze strutturali, ma contrariamente alla Russia aspiravano ad avvicinarsi all’Occidente e unirsi all’Europa.
L’aggressività di Putin è alimentata da tre fattori. Il primo è quello di un irreversibile declino culturale, politico e morale delle democrazie, incoraggiato oltre che dalle divisioni europee, dalla debolezza di Obama e poi dall’imprevedibilità di Trump. Il secondo è un’oggettiva alleanza con la Cina fondata sul comune interesse delle due autocrazie di modificare a proprio favore l’ordine mondiale disegnato dall’Occidente; non importa se la Russia figura come il partner di gran lunga minore. Il terzo è che gli europei, ma in fondo anche gli Usa, hanno tardato a lungo prima di prendere atto di questa involuzione e dei pericoli che comportava. Il risultato è stato che abbiamo lasciato che si instaurasse progressivamente un’eccessiva dipendenza di parte dell’Europa dalle importazioni di gas russo.
Perché questo diniego del pericolo da parte di molti europei (in particolare da parte della Germania e dell’Italia) si dissipasse, non è bastata l’invasione della Georgia nel 2008 e l’annessione della Crimea nel 2014. Siamo così arrivati all’attuale aggressione all’Ucraina. Il pretesto è stato la volontà dell’Ucraina di aderire alla Nato, ma la vera ragione è il timore che un’evoluzione riuscita verso la democrazia e l’Europa di un Paese per molti versi così simile alla Russia possa avere conseguenze destabilizzanti per il regime autocratico di Putin.
Il mese o poco più di guerra ha avuto effetti in parte inaspettati. Putin contava su una divisione degli europei e fra l’Europa e gli Usa. Invece l’Occidente si è ricompattato. All’interno di esso, dopo un primo momento di ricerca di compromesso da parte di alcuni Paesi come la Francia, la Germania e anche l’Italia, si è unita anche l’Europa. Insieme abbiamo preso due decisioni di gran peso: l’applicazione alla Russia e ai principali esponenti del regime di sanzioni commerciali, personali e finanziarie di una durezza senza precedenti e inoltre la fornitura all’Ucraina di armi difensive. Sul fronte bellico si è vista, anche grazie all’aiuto occidentale, una formidabile capacità di resistenza del popolo ucraino il cui patriottismo si è rivelato più forte delle aspettative. L’esercito russo si è invece mostrato, malgrado attacchi devastanti sulle città e numerosi altri crimini, più inefficiente e mal diretto del previsto. Le sanzioni hanno effetti durissimi sull’economia russa, ma colpiscono in maniera non simmetrica i Paesi europei. Gli effetti sul commercio, data l’importanza limitata della Russia sul mercato, sono abbastanza modesti. Ma la Russia è il principale fornitore di gas dell’Europa e per alcuni Paesi fra cui la Germania e l’Italia il problema è molto serio. Effetti importanti si hanno anche sul mercato dei cereali di cui Russia e Ucraina sono grandi esportatori. Infine, la violenza del conflitto conduce milioni di profughi a lasciare l’Ucraina; l’Europa sta dando prova di una straordinaria generosità nell’accoglienza.
Sul fronte bellico si è vista, anche grazie all’aiuto occidentale, una formidabile capacità di resistenza del popolo ucraino, il cui patriottismo si è rivelato più forte delle aspettative
Sono in corso negoziati bilaterali, ma le prospettive di soluzione sono al momento modeste. Non sembra che Putin sia disposto a rinunciare ai suoi obiettivi e l’Ucraina non è pronta a compromessi pesanti. È impossibile a questo punto fare previsioni, ma è probabile che, anche se si arrivasse ad un cessate il fuoco non si tratterebbe di pace ma di un lungo periodo di tensione; quasi una nuova guerra fredda in cui le sanzioni saranno in gran parte mantenute. Ovviamente non ha senso che l’Europa si ponga in funzione di mediatrice. Tuttavia la posizione dell’Occidente pesa sul negoziato. La prima e più importante priorità è mantenere l’unità. Tranne voci isolate, nessuno vuole costringere l’Ucraina ad accettare compromessi penalizzanti. La posizione attuale, sanzioni più fornitura di armi difensive, è invece criticata perché i suoi effetti sono efficaci sul medio periodo, ma nell’immediato prolungano la guerra. C’è invece chi sostiene che, per indurre Putin a compromessi più ragionevoli, dovremmo aumentare il sostegno militare e indurire le sanzioni estendendole agli idrocarburi. C’è una certa logica in questa posizione, ma essa comporta anche dei rischi. La Russia, malgrado la sua dimostrata debolezza, è una potenza nucleare e c’è il timore che Putin messo alle strette compia gesti inconsulti. L’indurimento delle sanzioni potrebbe inoltre comportare prezzi eccessivi per alcuni Paesi europei. La discussione è aperta. Conterà anche il ruolo della Cina, Paese alleato della Russia, ma che ha le sue priorità in Asia e può temere gli effetti della guerra e delle sanzioni sulla sua posizione nell’economia mondiale.
In questa situazione la priorità per l’Europa e in particolare per l’Italia, oltre a rafforzare l’unità è di dare un seguito concreto alla revisione della politica energetica volta a sottrarsi in tempi rapidi al ricatto del gas russo. Il compito è complesso perché ha implicazioni molto estese, tanto più che si aggiunge agli altri problemi economici sul tavolo. Alcune priorità di politica economica e monetaria che sembravano scontate prima della crisi sono rimesse in discussione; per esempio le prospettive di inflazione si aggravano. Agli imperativi economici e sociali, si aggiunge anche la necessità di aumentare le spese militari; non tanto e non solo per assolvere impegni presi da tempo in sede Nato, ma perché la situazione di tensione lo richiede e non possiamo contare indefinitamente sulla sola protezione americana. Non è escluso che nei prossimi mesi maturino le condizioni politiche per un nuovo programma di finanziamenti europei per far fronte ai nuovi problemi. Prospettiva che però dipende in gran parte dal successo dal programma Ngeu approvato l’anno scorso e il cui successo come sappiamo dipende in gran parte dall’Italia.
Non è escluso che nei prossimi mesi maturino le condizioni politiche per un nuovo programma di finanziamenti europei per far fronte ai recenti problemi