Un valore di 3,2 miliardi di euro, in aumento del 35% rispetto all’anno precedente. Sono i numeri dei progetti di Industria 4.0 in Italia nel 2018. Numeri importanti, emersi dalla quinta edizione dell’Osservatorio industria 4.0 della School of management del Politecnico di Milano e che fanno comprendere la direzione intrapresa dall’industria che, soprattutto nel settore manifatturiero, sta spingendo decisa verso la digitalizzazione dei suoi processi.
Sempre secondo l’Osservatorio, a trainare il mercato sono le tecnologie dell’intelligenza artificiale industriale, seguono le tecnologie per le industrial analytics (l’analisi dei dati nei processi industriali), il cloud manufacturing (l’abilitazione tramite le tecnologie cloud dell’accesso delle risorse manifatturiere) e a seguire tutte quelle tecnologie relative all’automazione digitale.
I numeri, dunque, raccontano un contesto in fermento, in cui si fa sempre più fitto il dialogo tra il mondo delle aziende e quello accademico. Due universi con grande difficoltà di comunicazione nel passato, che oggi lavorano sinergicamente verso un futuro in cui la competizione globale è sempre più impietosa.
E proprio il supporto delle imprese in questa delicata fase di transizione digitale è uno degli obiettivi dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, che dal 2005 è operativo al fianco del mondo imprenditoriale per sviluppare soluzioni tecnologiche e digitali. Il direttore generale è Gianmarco Montanari, ingegnere ed ecomomista, che nel suo ultimo libro “Tech Impact” edito da Guerini e Associati ha riflettuto sul complesso rapporto tra uomo, tecnologia e macchine in un’epoca di cambiamento. Noi lo abbiamo incontrato.
Gianmarco Montanari, direttore generale dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova
Direttore, la tecnologia sta modificando la nostra vita e le imprese stanno virando verso un modello 4.0. Una rivoluzione o un semplice momento di passaggio?
È una trasformazione decisa e delicata, anche se i soggetti che più stanno investendo nell’industria 4.0 sono quelli che il mercato ha selezionato meglio. Mi spiego: la competizione degli ultimi dodici anni è stata furente e chi è sopravvissuto alla globalizzazione degli anni ’90, all’esplosione della net economy dei primi anni 2000 e alla grande crisi del 2008 ha acquisito un know how e una cultura tale che il passaggio alla digitalizzazione è visto come un fatto naturale. In pratica sul mercato sono rimaste quelle aziende che per solidità e propensione all’innovazione sono in prima fila verso industria 4.0. Questo ha fatto sì che, dopo tanti anni difficili, si riannodasse il filo del dialogo tra industria e mondo della ricerca applicata.
È indubbio che il sud con la digitalizzazione ha l’opportunità di superare lacune strutturali storiche. Realtà competitive e innovative sono presenti in varie aree del nostro mezzogiorno
Impresa e ricerca sono quindi di nuovo sodali. In questo contesto si muove anche il vostro Istituto. Che cosa fate per il mondo delle aziende?
Per noi questo cambio di clima nel rapporto con il mercato non ha rappresentato una novità, anzi. Nasciamo proprio per supportare le imprese nel processo tecnologico e siamo stati i primi in Italia ad accompagnare le imprese in questo processo. Incontriamo costantemente manager e imprenditori, in modo da presentarci e capire quello che vogliono. Questo scambio è indispensabile per fare vera innovazione.
Ma qual è l’identikit delle imprese che si rivolgono a voi come partner d’innovazione?
Sono aziende di piccola, media e grande dimensione, desiderose di investire nelle quattro aree individuate dal nostro piano strategico che definiamo ogni 4-5 anni: robotica e automazione su cui abbiamo una vasta esperienza sin dalla nostra nascita, nanotecnologie e smart material, tutto il modo del lifetech (la scienza applicata alla biologia) e infine la scienza computazionale. Su queste aree si basa la collaborazione con le imprese private verso cui operiamo un vero e proprio trasferimento tecnologico.
Ma il fatto che l’ossatura produttiva italiana sia costituita da Piccole e medie imprese non rappresenta un limite lungo la strada dell’innovazione?
Non generalizzerei. Certo, il vero problema è economico. Per fare ricerca ci vogliono investimenti significativi e questi generalmente sono a disposizione delle grandi aziende. Le imprese si affidano a noi in outsourcing, con costi quindi notevolmente inferiori rispetto a quelli che sarebbero sostenuti facendo innovazione e ricerca internamente.
Quindi è solo una questione di convenienza economica?
Nient’affatto. L’IIT mette a disposizione attrezzature e laboratori ma non solo. In ricerca il vero valore aggiunto sono gli scienziati. Per una piccola impresa attrarre ricercatori validi è assai difficile, il nostro Istituto ci riesce meglio, perché facciamo ricerca su vasta scala e con ottimi laboratori. L’azienda che si rivolge a noi prende una porzione della nostra ricerca, quella che più le interessa. Dovesse fare da sola sarebbe più dispendioso in termini economici ma anche di performance.
Robotica e automazione, nanotecnologie e smart material, il mondo del lifetech e la scienza computazionale. Queste le aree di collaborazione con le imprese private
L’Industria 4.0 e la digitalizzazione in genere può rappresentare anche un’occasione per le aziende del sud che soffrono la carenza di infrastrutture fisiche?
Certamente, ma io uscirei da questo discorso territoriale. L’innovazione se ben gestita è un vantaggio per chi la sa cavalcare bene e anche per chi deve rincorrere, senza limiti regionali. È indubbio, tuttavia, che il sud con la digitalizzazione ha l’opportunità di superare lacune strutturali storiche, tanto è vero che in alcune aree più industrialmente attive ci sono realtà competitive e innovative. Noi a Lecce abbiamo il Centro per le nanotecnologie biomolecolari, che si occupa dello sviluppo di materiali biomolecolari e biologici e delle loro interazioni alla nanoscala. È un centro d’eccellenza. Ma realtà del genere sono molto presenti in varie aree del nostro mezzogiorno. No, mi creda, l’innovazione non fa discriminazioni territoriali.