Globalizzazione 4.0, trasformazioni geopolitiche, nuovi paradigmi tecnologici ed economici stanno modificando le regole del gioco che governano l’economia, il lavoro, la società, i mercati. Tuttavia, la risposta adattativa degli ecosistemi produttivi e di governance pubblica a questi mutamenti è ancora frammentata, discontinua e non sufficientemente veloce per affrontare le sfide e cogliere le opportunità che la modernità offre al nostro Paese. Sul versante imprenditoriale e manageriale, i trend evolutivi si orientano verso modelli culturali molto più complessi, fluidi, agili, veloci, che conducono a essere più attenti e permeabili a stili gestionali e di leadership che travalicano il tradizionale sistema di riferimento settoriale, territoriale e dimensionale. Non a caso, un numero crescente di imprenditori sta spostando il proprio focus principale dal “fare” (produzione e vendita) a forme più sofisticate di governance, inclusa l’acquisizione di conoscenze e competenze tipicamente manageriali in grado di adattare il valore del prodotto e l’efficienza aziendale alle sollecitazioni e agli shock provenienti dall’esterno.
Ad alimentare ulteriormente la spinta verso questa “ibridazione” ci sono almeno tre fattori: l’accresciuta propensione a innovare; l’attenzione quasi “ossessiva” alla qualità verticale e orizzontale di prodotto; la necessità di diversificare i mercati di riferimento. Molto spesso, tutto ciò sta avvenendo secondo traiettorie che tutelano l’impronta genetica della via italiana alla manifattura ossia preservando, anche nella trasformazione, quegli asset che ci hanno resi leader in moltissime nicchie di mercato. Questo nuovo “imprenditore-manager” sembra essere aperto a contributi manageriali esterni e, nella maggioranza dei casi, consapevole che “le imprese che nei prossimi anni non si doteranno di competenze manageriali faranno fatica ad affrontare il cambiamento e a essere competitive”. In prospettiva, circa la metà degli imprenditori intervistati dichiara l’intenzione di assumere almeno un manager nei prossimi 3 anni; questa percentuale, nelle aziende prive di queste figure professionali, si attesta intorno al 30%.
Un imprenditore su due dichiara l’intenzione di assumere almeno un manager nei prossimi 3 anni
I dati raccolti dall’Osservatorio 4.Manager evidenziano ampi processi trasformativi anche in ambito manageriale, soprattutto in relazione allo spostamento del focus manageriale da funzioni legate all’esecuzione, alla specializzazione (HR, marketing, finanza, ecc.) e all’attività di “comando e controllo”, a compiti sempre più ampi e complessi: individuare tendenze, minacce e opportunità e formulare previsioni; accelerare e facilitare i cambiamenti; velocizzare i ritmi di apprendimento dell’organizzazione e valorizzare il capitale umano aziendale; creare processi e team di lavoro resilienti; valorizzare le diversità; sviluppare modi e processi di lavoro di tipo collaborativo; operare tenendo conto dell’etica e della responsabilità sociale.
Queste nuove funzioni richiedono conoscenze e competenze multidisciplinari e trasversali a diverse aree aziendali e una spiccata capacità di gestione e motivazione delle persone: people leadership. Inoltre, la velocità di obsolescenza delle competenze tecniche richiede ai manager di sviluppare una dote essenziale: la learning agility; ossia, la capacità d’imparare ad apprendere in modo veloce, continuo e su uno spettro ampio di domini di conoscenza. Non è un caso quindi che molte business school stiano rimodulando l’offerta formativa e didattica nella direzione di questi cambiamenti e che il mercato formativo si stia arricchendo di piattaforme ibride con funzioni di knowledge sharing manageriale (ad esempio Luiss Enlabs, H-Farm, TalentGarden, ecc.), networking e open innovation.
Analizzando lo skill mix manageriale richiesto dalle imprese, appare evidente che il confine tra competenze hard e soft si stia assottigliando sempre più. Anche alle funzioni manageriali più tecniche ed esecutive si richiede di esercitare le competenze “hard” su uno spesso substrato di competenze trasversali (soft). L’utilità di queste ultime si avverte soprattutto nei contesti problematici o nei quali è necessario gestire un gruppo, quando è richiesta un’ampia dose di flessibilità, negli ambienti particolarmente complessi e mutevoli o in quelli sottoposti a shock organizzativi o tecnologici. È il caso, ad esempio, delle competenze trasversali richieste ai manager che operano o intendono operare per le Pmi. In questi contesti, l’approccio manageriale “anglosassone” risulta spesso controproducente. Il tipo di relazione che invece sembra vincente è quella del “business partner” ossia di un rapporto con l’imprenditore basato su fiducia, ascolto, rispetto del patrimonio genetico dell’impresa, capacità di proporre obiettivi intermedi misurabili e coerenti con le risorse e l’orizzonte temporale specifico, infine capacità di proporre idee e soluzioni alla portata dell’impresa. Queste “attitudini” diventano quasi obbligatorie nei casi in cui l’impresa stia attraversando una fase trasformativa (ad esempio un passaggio generazionale) o sia soggetta ad accelerazioni tecnologiche o competitive.
Nelle Pmi, il rapporto con l’imprenditore più vincente è quello basata su fiducia, ascolto e rispetto del patrimonio genetico dell’impresa
Anche i canali sui quali si incontra la domanda e l’offerta di competenze manageriali influiscono sullo skill mix. Già oggi LinkedIn si configura come un potente strumento di disintermediazione nel mercato del lavoro, ma questa piattaforma differisce dalla semplice job board perché consente l’uso di strumenti di analisi reputazionale sia per il soggetto che offre lavoro, sia per chi lo domanda. Ecco allora che il tema dell’etica e della reputazione diventano fondamentali per arricchire lo skill mix manageriale. Alle tendenze appena descritte se ne affiancano altre meno appariscenti, che tuttavia potrebbero produrre effetti ancor più dirompenti di quelli visti in precedenza: una quota della domanda di competenze manageriali si sta orientando verso figure talmente innovative da risultare ancora scarsamente definite e, in alcuni casi, addirittura prive di una denominazione condivisa. È il caso, ad esempio, delle figure manageriali che dovranno utilizzare le tecnologie abilitanti o, più in generale, di quelle che dovranno confrontarsi con i nuovi paradigmi economici (economia circolare, platform economy, ecc.).
Altro grande driver per il futuro prossimo delle competenze manageriali è il nuovo rapporto uomo – macchina che si sta formando nei luoghi in cui si diffondono sistemi cyber-fisici (CPPS) in grado di connettere mondo reale e mondo virtuale, fabbrica e singolo consumatore, manager, tecnici e macchine, intelligenze biologiche e artificiali. Le conoscenze e le competenze necessarie a operare in questi contesti dovranno essere ridisegnate per adattarsi a un ecosistema che, grazie all’interconnessione, muterà di forma e di contenuti. Infine, l’introduzione dell’intelligenza artificiale a supporto delle funzioni manageriali, porterà con sé un tale cambiamento delle modalità lavorative e delle competenze richieste che, oggi, ne intravvediamo a malapena i contorni. Vista l’entità dei cambiamenti in atto, non sappiamo ancora con precisione quale sarà lo skill mix ideale per i manager dei prossimi anni. Ma una cosa sappiamo di sicuro: sarà molto diverso da quello attuale.