“Quel “eccetera eccetera” nasce dal modulo con cui registrammo la testata nel 2011. Avevamo lasciato questa dicitura per riempire lo spazio in un secondo momento e invece è rimasto così, in coerenza con gli ambiti di cui Artribune si è occupata in questi anni, e cioè un continuo eccetera eccetera rispetto ai contenuti artistici”. Otto anni dopo quella strana dicitura è ancora lì e Artribune è diventata un punto di riferimento per l’informazione culturale. Fuori e dentro la rete. Arte e cultura declinati su un orizzonte vasto, argomenti raccontati con puntualità e approfondimento che rifugge dalle logiche a volte un po’ provinciali e troppo spesso decontestualizzate dei media main stream. “Non ci siamo mai limitati a parlare di arte contemporanea ma abbiamo allargato lo spettro a tantissime altre discipline, dall’architettura al design, dal cinema al teatro fino al fumetto. Eccetera eccetera, appunto”, racconta Massimiliano Tonelli che di Artribune è stato fra i fondatori e che oggi dirige una squadra con circa 250 collaboratori da tutto il mondo.
Massimiliano Tonelli, direttore di Artribune
Direttore, possiamo dire che la capacità di spaziare fra argomenti apparentemente diversi ma legati da un comune denominatore ha fatto di Artribune un unicum nel panorama editoriale italiano?
Diciamo che è difficile trovare un’altra pubblicazione che abbia la stessa nostra velocità e competenza su mondi che, per quanto diversi, sono comunque confinanti. Diciamo anche che la nostra medesima capacità di anticipare notizie e tendenze, mettere insieme una gamma così ampia di servizi specializzati, in un mondo di riviste a volte molto settoriali, ha premiato il nostro impegno.
Di Artribune colpisce anche l’apertura alla “contaminazione” che fa da filigrana alla vostra lettura del presente. Possiamo dire che in qualche modo la vostra rivista racconta arte e cultura provando anche a riposizionarle dentro un sistema più complesso che va oltre i musei e i luoghi classici di fruizione?
La nostra è anzitutto una visione politica molto chiara e spiccata, quasi basata su alcuni interrogativi di fondo: a cosa serve tutto questo? Come può contribuire al miglioramento della vita quotidiana di tutti? Come può entrare a far parte di una sorta di movimento civico e non soltanto di un progetto di produzione culturale? Come può inquadrarsi in una spinta per rendere migliori le nostre città, gli spazi che viviamo? Ma la cosa più difficile in assoluto fra quelle che facciamo è provare a spiegare ai nostri lettori ciò che succede. È una scelta per certi versi didattica: abbiamo l’ambizione di fare in modo che chi legge quello che pubblichiamo impari qualcosa oltre alle informazioni che non conosceva. Per fare questo serve però un esercizio continuo sul modo in cui diamo le notizie, sul tono e sullo stile che usiamo per scriverle.
Tutto ciò che ci fa vivere meglio genera sviluppo economico e sociale, comprese l’arte e la cultura con il loro straordinario circolo virtuoso
In Italia per troppi vale ancora l’adagio secondo il quale “con la cultura non si mangia”. In qualche modo voi date una risposta a questa tesi: con la cultura non solo si mangia, ma si vive meglio.
Quello che cerchiamo di ricordare in ogni occasione è che tutto ciò che ci fa vivere meglio genera sviluppo, economico e sociale. Comprese l’arte e la cultura. Un museo che funziona, che è ben gestito e offre una esperienza all’altezza ai suoi visitatori è un museo che genera flussi turistici, aumenta il valore dell’area che lo ospita e incoraggia investimenti commerciali nel circondario. Un circolo virtuoso straordinario che dimostra che con la cultura non solo si mangia, ma si mangia benissimo. Si crea un dispositivo che incentiva gli investimenti e attrae capitali. Purtroppo questo tipo di lettura in molti ambienti è ancora visto come un qualcosa che sporca un concetto sacro e intoccabile di arte e cultura.
A volte, soprattutto nel mondo accademico, parlare di cultura e arte inserendole anche in un contesto economico è considerata una blasfemia. E quando si parla di managerialità applicata a questo mondo si finisce per generare polemiche roventi quando non accuse di volgare mercificazione. È inevitabile?
Ovviamente nessuno ha intenzione di ridurre la dimensione dell’arte e della cultura ad una logica commerciale, sia chiaro. Ma non possiamo neanche escludere gli aspetti economici e dello sviluppo dai quelli legati ai beni culturali. Purtroppo gran parte della classe intellettuale del Paese ha paura di questo e non riesce a fare i conti con una gestione moderna dei beni culturali che invece rappresenta la normalità a livello internazionale. C’è un settore del mondo accademico che quando si parla di apporto di capitali privati, di managerialità e sponsor continua a credere che il modo italiano di fare le cose, anche intorno all’arte, sia comunque il migliore. È una forma di resistenza culturale rispetto alla quale negli ultimi anni qualche cambiamento c’è stato, specie grazie alla riforma dell’ex ministro Franceschini. Penso ad esempio all’Art bonus o all’apertura alle professionalità di provenienza internazionale nella direzione dei musei. Piccoli passi nel comune sentire e nella concezione diffusa dello stato delle cose.
A una buona capacità di formazione di professionisti non corrisponde adeguata ricettività del settore: così i manager culturali vanno all’estero portando in dote il loro patrimonio di conoscenze
Ritiene che questa situazione sia unicamente frutto di un ritardo culturale o che piuttosto in Italia si paghi ancora la mancanza di una adeguata formazione manageriale legata al mondo dell’arte e della cultura?
Non mi pare che l’Italia sia così in ritardo dal punto di vista della formazione. Anzi, ci sono tantissime offerte e tutte le migliori università del Paese, sia pubbliche che private, hanno lanciato corsi sul management delle industrie culturali. Del resto il fatto che così tanti professionisti italiani rivestano ruoli importanti in alcune delle istituzioni culturali più prestigiose del mondo è la dimostrazione della bontà del nostro sistema formativo. Purtroppo paghiamo ancora una mancanza di sistema. Se a una buona capacità di formazione di professionisti specializzati non corrisponde la ricettività del settore, gli sforzi si vanificano e i manager culturali scappano all’estero portando in dote il patrimonio di conoscenze in cui eccelliamo.