Milano, Torino o Cortina? Ora che il governo ha garantito il suo appoggio alla candidatura italiana per le Olimpiadi invernali del 2026 rimandando però la palla al Coni che si espresso per la candidatura unitaria (primo caso nella storia), il dibattito sull’opportunità e la sostenibilità dei Giochi si è riacceso come ai tempi della decisione della giunta di Virginia Raggi di sbarrare la strada alla corsa di Roma2024.
“Trovare soluzioni condivise, con riguardo al contenimento degli oneri complessivi e alla valorizzazione del rapporto costi/benefici dell’evento nonché tenendo conto della sostenibilità del progetto a livello sociale e ambientale”, ha raccomandato il Consiglio dei ministri nel tentativo di tenere basso il fuoco delle polemiche.
Perché da Atene a Torino, da Pechino a Rio, è indiscutibile che troppo spesso allo spegnimento del braciere olimpico sul terreno sono rimasti conti in rosso e strutture presto cadute in disuso, “white elefant” destinati all’abbandono. Un allarme che ha spinto il Cio ad inserire nell’Agenda Olimpica 2020 la raccomandazione affinché le prossime edizioni dei Giochi siano economicamente sostenibili e rappresentino una opportunità di crescita per il Paese che le ospita.
Nell’Agenda Olimpica 2020 è stata inserita una raccomandazione affinché le prossime edizioni dei Giochi siano economicamente sostenibili e rappresentino una opportunità di crescita per il Paese che le ospita.
Certo non è stato così per Atene, che chiuse il bilancio dei Giochi 2004 con un passivo di quasi dieci miliardi che secondo molti analisti ha giocato un ruolo tutt’altro che secondario nel collasso i conti del Paese.
E non è stato così neanche per Pechino dove l’organizzazione delle Olimpiadi del 2008 è costata circa 30 miliardi, o per Sochi 2014 quando la Russia ha sfondato il muro dei 40 miliardi spesi per i Giochi invernali.
Conti che alla fine si sono sempre discostati pesantemente dalle ottimistiche previsioni della fase organizzativa, come hanno dimostrato una serie di studi scientifici pubblicati a partire dal 2002 dal progetto “Journalist’s Resource” dello Shorenstein Center di Harvard, e che spesso hanno lasciato pesanti eredità nei bilanci statali.
Accadde a Montreal nel 1976 quando il governo locale fu costretto ad imporre una tassa speciale sui tabacchi (rimasta in vigore fino al 2006) per ripagare i debiti contratti, e alla città giapponese di Nakano che ha impiegato venti anni a ripianare il deficit dell’edizione del 1998 dei Giochi invernali.
“Qualcosa andò storto anche da noi – ammise in un’intervista al Corriere della Sera Marco Sampietro, “ministro delle Finanze” del comitato organizzatore di Torino 2006 -. Le Olimpiadi non sono mai il modo migliore per spendere denaro pubblico”. Eppure, nonostante gli impianti abbandonati le cui immagini ancora oggi suscitano indignazione, Torino è stata senza dubbio una delle città che almeno in termini di infrastrutture e ricadute “sociali” e d’immagine più si è giovata dell’esperienza dei Giochi invernali.
Perché l’organizzazione di una Olimpiade non si misura soltanto con la sfida economica o infrastrutturale: il successo del progetto andrebbe calcolato anche sugli effetti vivi che i Giochi riescono a lasciare in eredità.
L’esempio più fortunato, in questo senso, è Barcellona. Vero che il conto olimpico segnò un rosso di circa 6 miliardi di euro, ma senza dubbio l’edizione del 1992 cambiò radicalmente l’immagine di una città che per l’occasione si aprì su un lungomare di 3 chilometri sorto dove prima esistevano solo capannoni industriali.
Scelte urbanistiche che hanno fatto della capitale della Catalogna la metà di turismo di massa che conosciamo oggi.
Se infatti l’aeroporto di Barcellona nel 1991 gestiva il passaggio di 2,9 milioni di passeggeri, nel 2002 il traffico era salito a 21 milioni mentre l’incidenza del turismo sull’economia cittadina è passata nello stesso periodo dal 2 al 12,5%, con 12.500 posti di lavoro creati nel solo settore turistico.
Effetti che ha scoperto anche Londra, dove la costruzione del Parco Olimpico ha cambiato la geografia urbana della zona di Stratford.
A cinque anni dai Giochi del 2012 la “London Legacy Development Corporation”, la società che oggi gestisce il Parco Olimpico, ha tracciato un bilancio impressionante di quello che è stata fruizione successiva delle strutture costruite per i Giochi.
Oltre 2,5 milioni di persone hanno nuotato nell’“Aquatics Centre” dove erano state assegnate le medaglie in piscina, mentre la “Copper Box” che aveva ospitato gli incontri di pallamano e scherma è stata trasformata in un’arena dotata di campi al coperto e palestre frequentate da 1,5 milioni di persone.
Quello che era l’International Broadcasting Centre da cui trasmettevano tutte le tv del mondo oggi invece ospita aziende creative e digitali e corsi universitari dando lavoro a circa 5300 persone. E se lo Stadio Olimpico è diventato di proprietà della squadra di calcio del West Ham, è in via di ultimazione l’“International Quarter London”, un complesso di uffici che ospiterà circa 25.000 persone impiegate in aziende e servizi.
Secondo le stime, infine, entro il 2025 il “Queen Elizabeth Olympic Park” avrà dato da lavorare a 40.000 persone e 55.000 persone circa vivranno in case costruite nella zona dopo le Olimpiadi.
*giornalista professionista, si occupa di cronaca giudiziaria, sport e tecnologia.