Cervelli in bilico

Tra scossoni economici e rivoluzione tecnologica, la Cina e le sue giovani generazioni affrontano un nodo cruciale: il divario tra istruzione e occupazione

«È un lavoro stabile. Con questo reddito posso sostenere la mia famiglia. Se lavori duro, puoi guadagnare dignitosamente. Non è male». A parlare è Ding Yuanzhao, 39 anni, una laurea, due master, un dottorato, e oggi rider di professione.

Ding è originario della provincia cinese del Fujian, ha sostenuto l’esame di ammissione all’università (il temuto gaokao) nel 2004. È entrato alla prestigiosa Università Tsinghua con un punteggio di quasi 700 su un massimo di 750. Dopo la laurea triennale in chimica, ha proseguito gli studi presso un altro storico istituto, l’Università di Pechino, conseguendo un master in ingegneria energetica. Non soddisfatto, ha ottenuto un dottorato di ricerca in biologia presso la Nanyang Technological University di Singapore, per poi frequentare un master in biodiversità presso l’Università di Oxford nel Regno Unito.

Ma, nonostante gli innumerevoli titoli accademici, il ragazzo ha faticato a trovare un lavoro adeguato. Così, dopo aver fallito dieci colloqui, eccolo sfrecciare in sella al suo motorino undici ore al giorno per consegnare cibo a 550 dollari la settimana.

L’insolita scelta di Ding va attribuita in buona parte al traballante stato dell’economia cinese: dopo il Covid, il tracollo dell’immobiliare e il rallentamento degli investimenti, il mercato interno fatica a dare un impiego ai 12 milioni di neolaureati previsti quest’anno. Tanto che il tasso di disoccupazione urbana giovanile ad agosto è schizzato oltre il 18%. Ma agli ostacoli oggettivi si aggiungono motivazioni personali. Come Ding, sono sempre di più i giovani cinesi a preferire la “libera professione”, anche se meno redditizia, precaria, e ancora senza una copertura assistenziale adeguata. La generazione Z non ci sta a passare intere giornate in fabbrica ad assemblare scarpe e cucire t-shirt, come hanno fatto i genitori. Vuole standard di vita migliori, più tempo libero e meno responsabilità. Lo stipendio non è più l’unico fattore a determinare la decisione.

In Cina dopo Covid, tracollo dell’immobiliare e rallentamento degli investimenti, il mercato interno fatica a dare un impiego ai 12 milioni di neolaureati previsti quest’anno

Secondo l’Economist, ben 200 milioni di cinesi, ovvero il 40% della forza lavoro urbana, dipendono da qualche forma di “lavoro flessibile”. 84 milioni hanno un impiego legato alle piattaforme digitali per servizi quali ride-hailing e delivery. Ultimamente il lavoro occasionale in Cina si è diffuso persino nel settore manifatturiero, dove confluiscono milioni di persone con incarichi “on-demand” che passano da una fabbrica all’altra guidati da agenzie di reclutamento. Anche le aziende cominciano ad apprezzare assunzioni più elastiche che permettono di ampliare o ridurre la produzione (assumere o licenziare), rispondendo alla domanda stagionale, ai capricci del mercato e alle incertezze del contesto geopolitico internazionale. Una tendenza in crescita che sta inducendo governo cinese e big tech a regolamentare gli algoritmi ed estendere forme di previdenza sociale anche alla forza lavoro “fluttuante”.

Va detto che sono in pochi a considerare questo tipo di attività la professione della propria vita. Il più delle volte si tratta di impieghi temporanei fintanto che non arriva qualcosa di meglio. Ma il caso di Ding ha inevitabilmente ravvivato il dibattito sull’(in)utilità dell’istruzione. A cosa serve studiare se poi tanto tocca ripiegare su lavori non qualificati?

A ben vedere però più che la mancanza di opportunità, in Cina, il problema sta nel divario crescente tra le aspettative dei laureati e i posti disponibili. Mentre gli studenti di automazione e intelligenza artificiale sono ricercatissimi, molti altri riscontrano difficoltà a ottenere ruoli rilevanti in un contesto professionale sempre più competitivo. Non aiuta il fatto che anche le offerte di lavoro nei settori tradizionali, come internet e il tutoring, abbiano registrato una contrazione; complice la stretta normativa introdotta dall’amministrazione Xi Jinping nel 2021 per disciplinare i colossi digitali e meglio tutelare i consumatori. Come conseguenza, tra il 2022 e il 2025 Alibaba ha ridotto il personale di circa 50mila dipendenti.

D’altronde, anche l’enfasi attribuita dalla dirigenza cinese alle “nuove forze produttive” è una lama a doppio taglio. Gli investimenti nell’alta tecnologia, come l’intelligenza artificiale e il cloud computing, hanno reso particolarmente popolari le materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Nel 2020 oltre il 40% dei laureati cinesi risultava specializzato in una delle quattro discipline. Ma nemmeno in questo caso il titolo acquisito assicura uno sbocco professionale adeguato. L’altra faccia della rivoluzione hi-tech infatti ormai la conosciamo: la diffusione dell’automazione e di conseguenza l’estinzione di molte mansioni svolgibili più rapidamente e con costi minori da macchine e robot.

Le difficoltà incontrate nei settori fino poco tempo fa più ambiti stanno direzionando i giovani verso opzioni meno scontate. C’è chi per prendere tempo continua a studiare, intraprendendo la carriera accademica. Chi invece torna a puntare sulla vecchia “ciotola di ferro”, il posto statale retribuito meno bene di un impiego nel settore privato ma almeno garanzia di vari benefit: un’assicurazione sanitaria superiore, piani pensionistici preferenziali, frequenti bonus e contatti politici. È in aumento persino l’interesse per la carriera militare, solo pochi anni fa snobbata dalla maggior parte dei giovani cinesi. Tra il 2018 e il 2021, le iscrizioni nell’esercito sono state in media 13mila all’anno. Altri più semplicemente si affidano al sostegno dei genitori: i cosiddetti “figli a tempo pieno”, pagati da mamma e papà per occuparsi della famiglia. Oppure cercano la felicità in campagna, lontano dalle pressioni sociali. Abbandonata la corsa per il successo, rinunciano a comprare casa, a sposarsi e a raggiungere un elevato benessere materiale. Semplicemente preferiscono riposarsi e non fare nulla tutto il giorno, da cui il soprannome di “sdraiati” (tangping).

L’incapacità di trovare una posto – o meglio un posto soddisfacente – crea non solo insicurezza economica, ma anche la perdita di fiducia nelle proprie capacità. E minore slancio verso il futuro. Tanto più che quella attuale è la prima generazione cinese a sperimentare difficoltà finanziarie dopo trent’anni di boom economico. La prima a non vedere grandi prospettive davanti a sé. Secondo una ricerca della Capital Medical University di Pechino, pubblicata lo scorso anno, il 26,17% dei bambini e degli adolescenti ha manifestato sintomi di depressione, principalmente proprio a causa dello stress accumulato a scuola o in ambito lavorativo.

Quella attuale è la prima generazione cinese a sperimentare difficoltà finanziarie dopo trent’anni di boom economico

Inutile dirlo, l’incertezza professionale provoca problematiche collaterali. Il sistema cinese di registrazione della popolazione (hukou) preclude a chi non ha un impiego stabile l’accesso ai servizi pubblici urbani, dalla sanità all’istruzione per i figli. Che sia per scelta o per necessità, lo spostamento verso occupazioni flessibili e retribuzioni più contenute sta già avendo effetti sociali ad ampio raggio. Sono sempre meno i giovani cinesi a sposarsi e mettere su famiglia. E la demografia incombe sulla Cina, dove il tasso di fertilità è sceso a circa 1,09 figli per donna e la popolazione è in diminuzione per il terzo anno consecutivo.

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