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Rapporti di forza

Un quadro aggiornato della geopolitica dell’IA. Gli Stati Uniti restano al comando, ma i Brics premono con l’ambizione di ridefinire gli equilibri del potere digitale

La geopolitica dell’intelligenza artificiale non è una partita per anime sensibili. È il terreno su cui si ridisegnano le gerarchie del potere mondiale, un po’ come l’energia lo fu nel Novecento. Oggi il monopolio resta saldo nelle mani degli Stati Uniti, grazie a un intreccio di potenza tecnologica, capitali e università che continuano ad attrarre cervelli da tutto il pianeta. Ma chi pensa che questo equilibrio sia destinato a durare immobile commette lo stesso errore di chi, negli anni Sessanta, immaginava che Mosca non avrebbe mai potuto sfidare Washington nella corsa allo spazio.

Il cuore pulsante dell’intelligenza artificiale è ancora negli Stati Uniti. Non solo per la presenza di colossi come OpenAI, Google DeepMind, Microsoft, Meta o Anthropic, ma anche per l’ecosistema di startup e venture capital che immette ogni anno miliardi nel settore. Secondo lo Stanford AI Index, solo nel 2024 gli investimenti privati americani hanno raggiunto i 109 miliardi di dollari, a fronte dei 9,3 miliardi messi sul piatto dalla Cina e dei 4,5 miliardi del Regno Unito. Una sproporzione che racconta da sola la forza di fuoco di Silicon Valley e dintorni. Se allarghiamo lo sguardo al periodo 2013-2024, i capitali privati statunitensi destinati all’AI ammontano a 471 miliardi, mentre la Cina si ferma a 119 miliardi (fonte: Visual Capitalist, 2025). Una distanza che spiega perché i modelli generativi più avanzati nascano quasi sempre da laboratori americani.

Secondo lo Stanford AI Index, solo nel 2024 gli investimenti privati americani hanno raggiunto i 109 miliardi di dollari, a fronte dei 9,3 miliardi messi sul piatto dalla Cina e dei 4,5 miliardi del Regno Unito

Il primato non si limita ai soldi. Sul fronte delle infrastrutture, gli Stati Uniti detengono circa il 75% della capacità di calcolo globale per i supercomputer dedicati all’AI, contro il 15% della Cina (fonte: arXiv, 2025). È un vantaggio strategico, perché senza potenza computazionale non c’è addestramento di modelli su larga scala. In parallelo, il governo americano ha messo sul tavolo risorse pubbliche imponenti: tra il 2019 e il 2023, oltre 328 miliardi di dollari destinati a progetti legati all’intelligenza artificiale, più del doppio di quanto stanziato da Pechino nello stesso periodo (fonte: Investopedia, 2025).

Ma sarebbe da ingenui credere che la Cina resti ferma a guardare. Il Partito comunista ha fatto dell’AI un pilastro dei piani quinquennali e nel 2025 ha annunciato investimenti per circa 100 miliardi di dollari in robotica e intelligenza artificiale applicate alla manifattura e alla sanità (fonte: Ministero della Scienza e Tecnologia cinese, 2025). Non solo: con il fondo nazionale per i semiconduttori, da 95 miliardi di dollari, Pechino sta cercando di aggirare le restrizioni americane sull’export di chip avanzati. A Shanghai, sono stati messi a disposizione 600 milioni di yuan in voucher per aiutare le piccole imprese a sostenere i costi dell’accesso alla potenza di calcolo, coprendo fino all’80% della spesa. Una dimostrazione concreta di come la Cina sappia calibrare politiche industriali e strumenti finanziari per sostenere il settore.

Il recente vertice dei Brics in Brasile ha mostrato che la partita non è più bilaterale. India, Brasile, Sudafrica, Russia e Cina hanno adottato una dichiarazione congiunta per chiedere una governance dell’AI sotto l’egida delle Nazioni Unite, evocando principi di sovranità digitale ed equità (fonte: Dichiarazione finale del 17° vertice Brics, Rio de Janeiro). Non sono solo parole: il Brasile ha annunciato un piano da 4 miliardi di dollari per sviluppare capacità nazionali nel campo dell’intelligenza artificiale (fonte: Ministero della Scienza, Tecnologia e Innovazione brasiliano, 2025), mentre l’India spinge per applicazioni nel settore pubblico e nei servizi finanziari, con l’obiettivo di digitalizzare milioni di cittadini (fonte: Economic Times of India, 2025). La Russia, penalizzata dalle sanzioni, concentra le risorse sull’AI militare e sulla cybersicurezza. Non si tratta di un blocco uniforme, ma di un laboratorio di esperimenti che mira a costruire alternative alla supremazia americana. Il recente vertice SCO, cui hanno preso parte Cina, Russia e India, inoltre, ha rimarcato come il tentativo di spostare il baricentro del mondo verso Oriente sia un trend in atto e non arrestabile. Basta pensare che insieme questi tre Paesi rappresentano poco meno del 50% della popolazione mondiale, mentre Europa e Usa raggiungono a stento il miliardo di abitanti complessivi, circa il 12,5% del totale. E le infrastrutture cinesi dimostrano che, quando Pechino si mette in testa qualcosa non è questione di “se”, ma di “quando”.

L’Europa, invece, continua a restare in una posizione marginale. Bruxelles ha messo in campo un piano da 200 miliardi di euro, di cui 50 pubblici e 150 privati, per cercare di sviluppare una filiera continentale (fonte: Commissione europea, 2025). La Francia ha annunciato 109 miliardi destinati all’AI, nel tentativo di creare un polo nazionale competitivo. Ma il divario resta enorme. E il rischio concreto è che l’Europa diventi un semplice mercato di consumo di tecnologie sviluppate altrove, limitandosi a produrre regolamentazioni – come l’AI Act – che rischiano di imbrigliare l’innovazione invece di accelerarla.

La posta in gioco non è solo economica. Chi controlla l’intelligenza artificiale controlla anche la narrazione globale. Ogni modello linguistico porta con sé valori culturali e visioni politiche. Quando un cittadino indiano, brasiliano o italiano utilizza un sistema sviluppato negli Stati Uniti, finisce per interiorizzare anche un pezzo di quella visione del mondo. È un soft power più potente di Hollywood o di McDonald’s, perché si insinua nei processi cognitivi e nel modo in cui costruiamo le nostre informazioni quotidiane. L’intelligenza artificiale, infatti, già ora sta sostituendo alcune professioni “ripetitive” e a breve potrebbe rappresentare una valida alternativa a molti lavori, oltre che un tema fondamentale di “decision making”, poiché già in molti settori ancora ampiamente umano centrici ci si affida all’AI per una scelta definitiva (la medicina che individua tramite intelligenza artificiale alcuni tumori che la mente umana non sarebbe in grado di reperire è l’esempio più elevato).

Chi controlla l’IA controlla anche la narrazione globale. Ogni modello linguistico porta con sé valori culturali e visioni politiche.

Il monopolio americano, dunque, è solido, ma già si intravedono le prime incrinature. Gli Stati Uniti concentrano oltre il 60% dei capitali privati investiti nell’AI, ma i Brics hanno numeri demografici e risorse naturali che, sul lungo periodo, potrebbero rovesciare i rapporti di forza. Se davvero l’intelligenza artificiale diventerà la nuova elettricità, allora la capacità di produrla e distribuirla a basso costo determinerà la leadership globale.

Per l’Italia la domanda è sempre la stessa: vogliamo restare spettatori o tentare un ruolo da protagonisti? Non abbiamo la massa critica per sfidare gli Stati Uniti o la Cina, ma potremmo eccellere in verticali specifici: dalla manifattura al turismo, dalla sanità alla moda. Servono visione e coraggio politico. Altrimenti resteremo ai margini di una partita che ridisegnerà i rapporti di potere del XXI secolo. La verità è che non abbiamo né la forza né le competenze per poterlo fare, ma possiamo e dobbiamo fare fronte comune con il resto dell’Europa. D’altronde, l’Ue presa complessivamente sarebbe la seconda economia mondiale. E allora, se si trova un’unità complessiva d’intenti si può evitare o ritardare la marginalizzazione del Vecchio Continente. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.

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