Cos’è la sicurezza sul lavoro? Quell’insieme di azioni e provvedimenti regolati da norme che hanno lo scopo di rendere l’ufficio, l’azienda, un luogo in cui i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori siano ridotti al minimo. Ma è tutto qui? Norme e decreti di questa disciplina sono rivolti alla salvaguardia di chi lavora, ma in realtà non esistono solo barriere, postazioni, schermi e dispositivi. Si tratta di qualcosa di ben più grande.
L’attenzione alla persona non può rivolgersi solo all’individuo che lavora all’interno dell’azienda, perché ognuno di noi porta quotidianamente con sé tutto ciò che attiene alla sua vita e a suoi progetti dentro e fuori da quell’ambito. È qualcosa che neppure il termine work-life balance riesce a coinvolgere completamente: ognuno ha un proprio e specifico vissuto. La nostra rete di relazioni, il nostro roundabout o contesto socio-organizzativo è qualcosa che incide su ognuno di noi e va ben al di là delle nostre competenze.
L’attenzione alla persona non può rivolgersi solo all’individuo che lavora all’interno dell’azienda, perché ognuno di noi porta quotidianamente con sé tutto ciò che attiene alla sua vita
Dunque, oggi le imprese hanno più a cuore quella salvaguardia dei lavoratori che comprende la loro cura e il loro complessivo benessere. È talmente vero questo che il Ceo di una nota catena di hotel ha deciso di concedere cinque giorni di congedo retribuito ai dipendenti che stiano attraversando le difficoltà della fine di una relazione sentimentale.
Siamo in terra di confine tra sicurezza sul lavoro e welfare aziendale? Probabilmente sì. Ma è un’area interessante ed è in questo contesto che si situa anche un tema particolare e per certi versi curioso e stimolante: la pausa lavoro, comunemente detta pausa caffè.
La pausa caffè
Il nostro ordinamento – secondo la legge 66 del 2003 che rimanda comunque ai Ccnl per eventuali variazioni – prevede una pausa di almeno 10 minuti destinata a ogni lavoratore, la cui giornata lavorativa sia di almeno sei ore, finalizzata al recupero delle energie. Al nome corretto di pausa lavoro si preferisce il nickname alla caffeina, forse perché sappiamo che il caffè è in grado di portare un positivo beneficio all’attenzione di chi sta lavorando e il solo pronunciarne il nome pare talvolta evocarne il profumo rimandando all’atmosfera che questa particolare pausa è in grado di creare.
È una pausa non certo obbligatoria, né tantomeno lo è bere un caffè. Tuttavia, la storia di questo particolare momento merita di essere raccontata perché può stimolare considerazioni che attengono l’ineludibile area del benessere organizzativo. La trasformazione del concetto di pausa è infatti gradualmente passata all’ambito del welfare, smettendo di essere considerato un tempo sottratto al lavoro. Come è potuto accadere questo passaggio?
Le prime pause “letterarie”
Sappiamo che il caffè a cavallo del ‘700 comincia a trovare il suo posto in eleganti salotti che riunivano intellettuali e borghesi. Però il primo caffè venne aperto a Oxford, o forse a Londra, intorno al 1650 seguito da molte altre coffee house facendo sì che quella che riteniamo l’Inghilterra del tè ospitasse in realtà i primi club per intellettuali e politici. Non è mai stata una bevanda per tutti, ma forse proprio il fatto di essere occasione di intrattenimento e di dialogo per discussioni civili, politiche e letterarie ne fece presto qualcosa di diverso. A Milano, una delle principali sedi dell’illuminismo in Italia, i fratelli Verri fonderanno “Il caffè”, la rivista che porterà le animate discussioni accademiche del tempo sulle pagine di carta stampata.
Le origini americane
La prima pausa caffè documentata sembra nascere negli Stati Uniti, all’inizio del ‘900, a Buffalo presso la Barcalounger Company, azienda di mobili. Era una sorta di benefit per i dipendenti, era retribuita e aveva una durata di 15 minuti. Siamo in America: caffè lungo, pausa lunga.
Il merito del termine “pausa caffè” va però alla Pan-American Coffee Bureau che lanciò nel 1952 una campagna pubblicitaria sostenuta dallo slogan «Give yourself a coffee-break – and get what coffee gives to you». Il claim invitava a prendersi la pausa caffè per poter godere dei benefici della bevanda. L’associazione rappresentava paesi centro e sudamericani coltivatori di caffè e aveva l’obiettivo di promuovere il caffè negli Stati Uniti.
L’espresso è l’ideale
Diversamente che nel continente americano, in Italia il caffè non è mai piaciuto troppo lungo, semmai è sempre stato apprezzato corto. Forse anche per questo negli stessi anni di inizio secolo, animato da uno spirito più pratico e attento al mercato e al sogno di una vasta produzione, fu Luigi Bezzera a rendere possibile una pausa caffè per tutti, che non interrompesse alcun tipo di lavoro per un periodo di tempo eccessivamente lungo. Modificando un progetto esistente, Bezzera migliorò la macchina per il caffè inventata circa un decennio prima da Angelo Ariotto e creò la possibilità di ottenere la bevanda in pochissimo tempo sottoponendo la polvere macinata a una cascata d’acqua bollente.
Nasceva così l’espresso grazie in una formula destinata principalmente ai bar e che consentiva una preparazione e un utilizzo veloce, insomma ideale per essere gustato in poco tempo anche in fabbrica. Bezzera consentì la vendita della macchina in concessione alla Pavoni Spa di Desiderio Pavoni che battezzò questo metodo di estrazione col temine “l’ideale”.
Ma la quantificazione del tempo da dedicare alla pausa caffè è dovuta alla lotta sindacale dei membri della United Auto Workers del 1964, una conquista che definì che la pausa caffè doveva essere di ben 12 minuti al giorno.
Negli anni ’70 in Italia, come esito delle agitazioni sull’orario di lavoro anche i locali movimenti di protesta introdussero tra le richieste di maggiori diritti per i lavoratori quello del coffee break. Da quegli anni, il concetto di “pausa” ha subito una trasformazione significativa, ed è passato da simbolo di una lotta considerata da entrambe le parti un momento di “tempo rubato” a quello di un break meritato e irrinunciabile.
Oggi negli uffici, i distributori automatici sempre più presenti non erogano soltanto caffè: scambio di informazioni, confidenze, appuntamenti, anche decisioni o approcci a questioni che verranno poi affrontati nelle decisioni del board sono la norma. Possiamo tranquillamente concludere che la macchinetta odierna è un luogo di socializzazione. Va detto inoltre che il business di questo settore è in crescita e l’Italia ne detiene il primato europeo: forse perché, secondo le statistiche, più di un italiano su due beve il caffè davanti ai distributori e comunque questo consumo rappresenta, stando a un’indagine del 2023, il 12,2% dei caffè consumati. Può darsi che in alcuni casi possa disturbare il sonno ma sicuramente la pausa caffè influisce sulla bontà delle relazioni interpersonali con i colleghi.
Più di un italiano su due beve il caffè davanti ai distributori e comunque questo consumo rappresenta, secondo un’indagine del 2023, il 12,2% dei caffè consumati
Attenzione però: inizia a diffondersi anche qualcosa di negativo, ci sono state varie cause di lavoro per “eccesso di pausa caffè” ed è ora nato un inusuale coffee badging, la sempre più diffusa tendenza che coincide con la possibilità di lavorare in smartworking unita alla necessità di un pur breve confronto in sede. Ma per tempo brevissimo. Insomma: timbro, entro in ufficio, bevo il caffè, subito dopo sparisco. Resta il coffe break, relazione coi colleghi addio.
