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Economie in trasformazione

Creare nuovi processi produttivi riducendo i costi. Si può fare, grazie a un nuovo modello di circolarità che conviene alle imprese e al sistema Paese

Un operaio pulisce con attenzione un cilindro, mentre un altro, felpa bianca e blu, sta rimontando dei pistoni già lucidi. Se il motore è l’organo principale di un’auto, l’hub per l’economia circolare di una grande azienda automobilistica nel Nord Italia è un centro trapianti. Qui i motori vengono rigenerati perché si possano riutilizzare. E lo stesso per altri componenti. Un esempio di economia circolare: riuso delle risorse per evitare gli sprechi. E risparmiare, sia sulle materie prime sia sull’energia.

«Il vantaggio dell’economia circolare è che crea nuovi processi produttivi e spesso questo riduce i costi», spiega il professor Leonardo Becchetti, direttore del festival dell’economia civile ed esperto del tema. «Un rifiuto di produzione che dovrebbe essere smaltito e quindi rappresenterebbe una spesa, diventa invece un input che non devo acquistare, perché mi basta trasformarlo. Per questo spesso consente di realizzare delle economie di costo e rendere le aziende più produttive».

Risparmi che valgono più di 16 miliardi di euro, calcola Cassa depositi e prestiti in un report di inizio febbraio. Cifra che potrebbe aumentare significativamente, visto che rappresenta solo il 15% del potenziale teorico stimato al 2030.

Intanto, in Italia ci sono già aziende che recuperano bucce d’arancia per farne tessuto per cravatte, ricavano poliestere per indumenti sportivi da vecchie bottiglie di plastica o, ancora, trasformano scarti di granchio blu in mattonelle. Solo alcuni esempi, particolarmente creativi. In molti altri casi l’economia circolare è forse meno scenografica, ma comunque integrata nel Dna di aziende attraverso pratiche di risparmio e riuso.

in Italia ci sono già aziende che recuperano bucce d’arancia per farne tessuto per cravatte, ricavano poliestere per indumenti sportivi da vecchie bottiglie di plastica o, ancora, trasformano scarti di granchio blu in mattonelle

Aspetti su cui l’Italia è all’avanguardia, dice il professor Becchetti: «Noi abbiamo la legge Ronchi che anni fa ha modificato in modo innovativo il processo di recupero e smaltimento dei rifiuti. E poi abbiamo creato tutto un sistema di consorzi: Comieco, Conai, Corepla».

Enti che si occupano di riciclo e recupero di imballaggi, differenziati per tipologia di materiale: dall’alluminio alla plastica passando per carta e legno. E lo fanno coinvolgendo tutti gli attori della filiera: le imprese che producono e quelle che smaltiscono, la pubblica amministrazione che fissa le regole per il riciclaggio e i cittadini, che dovrebbero fare la raccolta differenziata e, possibilmente, adottare comportamenti sostenibili.
Ma non solo: «Questi consorzi – aggiunge- coordinano chi attraverso la raccolta differenziata ottiene la materia seconda, usata per creare nuovi materiali, come la carta riciclata».

Ridurre la dipendenza dalle materie prime è infatti cruciale per questo modello produttivo, chiarisce il professor Becchetti: «Dobbiamo superare un sistema lineare costruito sull’idea di estrarre, produrre, gettare, e sostituirlo con un modello circolare dove ciò che viene buttato, il rifiuto, viene riutilizzato, diventa nuova materia per produrre nuovi prodotti.»

Molte imprese italiane sono già proiettate su questa strada, conferma Edo Ronchi, presidente del Circular economy network: «Siamo a un buon livello sul consumo pro capite dei materiali, sulla produttività delle risorse siamo fra i migliori d’Europa, e sul tasso di utilizzo circolare di materia siamo leader.»

L’Italia è prima nella classifica complessiva di circolarità dei cinque principali Paesi europei, e anche con un margine notevole: abbiamo 45 punti, la Germania, al secondo posto, si ferma a 38. Ultima la Spagna, con 26. È quanto si legge nell’ultimo rapporto del Circular economy network con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile.
In particolare, le nostre imprese hanno accumulato molta esperienza nell’uso di materiali riciclati e nella riduzione degli imballaggi. Vantaggi da non perdere. Anche perché possono servire a rilanciare la manifattura italiana.

«L’industria europea dipende dalle materie prime critiche, così definite sia per la scarsa quantità disponibile sia per le difficoltà di approvvigionamento», spiega Ronchi. In questo senso, il riuso sarebbe un elemento chiave per risparmiare. Ma c’è di più.
A livello europeo esiste un vero e proprio diritto alla riparazione: i produttori hanno l’obbligo di aggiustare beni acquistati dai consumatori in caso di alcuni difetti, a meno che questo non sia impossibile. Lo stabilisce una direttiva europea dell’anno scorso.
«Questo -chiarisce Ronchi- vuol dire che ci vogliono i riparatori. Figure specializzate che, però, scarseggiano. Ma non solo: mancano, su questo, sia un dibattito pubblico sia iniziative di politica industriale».

Mancanze che potrebbero costare care alle imprese. Che rischiano di restare indietro sui temi dell’innovazione, dove la concorrenza è forte. A partire da quella cinese: «Seguendo il riflusso degli Stati Uniti di Trump – è convinto Ronchi- stiamo rallentando le politiche di transizione. In questo modo si apre uno spazio alla Cina, che lo riempie». Uno schema che si ripete, mette in guardia l’esperto: «È già avvenuto su pannelli solari e batterie delle auto elettriche, potrebbe avvenire in altri settori. La transizione non si ferma e chi si porta avanti acquista vantaggi industriali e di mercato».

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