Un vecchio adagio recita che l’ottimista sostiene che viviamo nel migliore dei mondi possibili; il pessimista si limita ad aggiungere “purtroppo”. Con lo stesso pragmatismo ci si deve confrontare con la legge di Bilancio, le cui bozze sono ormai pubbliche, e che sarà al centro dell’agone politico da qui alla fine dell’anno quando verrà definitivamente licenziata. Chiariamolo subito: non si tratta di una “brutta” Manovra. Ma fa i conti con la realtà, che è un po’ grigetta. Intendiamoci, fino a qualche tempo fa anche solo immaginare di guardare con malcelata superiorità i due mammasantissima d’Europa, Francia e Germania, sembrava pura utopia. E invece eccoci qui, con le agenzie di rating che ci riconoscono risultati assai più incoraggianti di Parigi (i cui titoli di debito ricevono un downgrade con outlook negativo) e Berlino che annaspa in una crisi ormai sistemica.
Però attenzione: se ipotizziamo che l’economia globale sia una costante maratona, è fondamentale che tutti abbiano ben chiaro che i progressi fin qui riconosciuti al nostro Paese rappresentano non molto più di un passaggio incoraggiante ai 5 chilometri. Fuor di metafora: siamo stati bravi, abbiamo fatto i compiti a casa, ora viene il difficile. L’Europa annaspa, e questo è un dato di fatto. Le sue contraddizioni stanno emergendo in maniera deflagrante: le culture politologiche si scontrano e si apparentano in modo totalmente entropico. Socialisti e liberali insieme, con Ursula, mentre i conservatori cercano un posto al sole. In questo momento di disgregazione, non ci possiamo permettere – neanche per errore – di distrarci o di cantarci inutili peana.
I freddi numeri: 30 miliardi nel 2025 (di cui 15 per confermare quanto fatto nel 2024 e altri 15 per nuovi provvedimenti), che diventeranno rispettivamente 35 e 40 nel 2026 e 2027. Male? Bene? Si vedrà. La carne al fuoco è tantissima. Ci sono le pensioni minime da elevare, ma con un incremento della spesa previdenziale dell’8% causa inflazione il ministro Giancarlo Giorgetti è stato piuttosto chiaro: «Con questa denatalità non c’è margine per aumentare ulteriormente i costi». E proprio il sostegno alle nascite risulta spuntato: 1.000 euro per le famiglie con un reddito fino a 40 mila euro non è molto. Aiuta, certo, ma non è dirimente – specialmente al Nord – per decidere di accogliere un nuovo membro della famiglia.
E poi c’è l’enorme tema dei conti. Posto che oggi, in Europa, si guarda con un occhio meno torvo a chi ha un fardello come il nostro, è indubbio che avere il secondo debito pubblico del continente, dopo la Grecia, non è esattamente un biglietto da visita di cui andare fieri. Anche qui, urge intervenire. Ma come? Troppo spesso si è detto, si è promesso, si è spergiurato. Si è inventato un commissario alla spending review; si è deciso che si sarebbero fatte privatizzazioni (a volte anche malissimo, come nel caso di Telecom). La scorsa legge di Bilancio aveva promesso 20 miliardi (in tre anni) dalla cessione di partecipazioni in aziende di Stato. Mps dovrà essere definitivamente abbandonata, ma il balletto di nomi continua senza che si arrivi a una soluzione. Una quota di Eni è già stata messa in vendita, e lo stesso sarà fatto con Poste, di cui il governo manterrà comunque la maggioranza assoluta.
Ovvio che anche in questo caso serva un passo in avanti deciso, che potrebbe arrivare cedendo una quota di Ferrovie. Ma anche qui, si tratta di un’operazione complessa che deve essere orchestrata con calma. Bisogna innanzitutto stabilire una Rab, acronimo per Regulatory asset base. La Rab rappresenta il valore regolato di un’infrastruttura, ovvero il capitale investito su cui i gestori possono ottenere un rendimento regolamentato. Una cessione fatta con criterio permetterebbe di ripetere le esperienze di successo che si sono verificate in Gran Bretagna o Germania o, nelle scorse settimane, con la metropolitana di Tokyo. Serve però capire quali asset vendere, stabilire un prezzo e tenere presente anche che il piano industriale varato lo scorso anno metterà a terra investimenti per 200 miliardi.
Tornando alla Manovra, ci sono le aliquote da ridurre, che vengono confermate con un introito extra per il 2025 di 1.000 euro circa a lavoratore, in linea con l’anno che va a concludersi. Ma servirebbe forse qualcosa di più strutturale per la riduzione del cuneo fiscale. Urge intervenire in maniera sostanziale contro il cosiddetto lavoro povero e per incentivare l’occupazione femminile, drammaticamente bassa e agli ultimi posti in Europa. E poi ci sono misure che sembrano più fatte per garantirsi il consenso elettorale che per reali ragioni di bilancio: il tetto agli stipendi dei manager pubblici a 160 mila euro rischia di rendere ancora meno attraente la gestione degli enti statali.
Il tetto agli stipendi dei manager pubblici a 160 mila euro rischia di rendere ancora meno attraente la gestione degli enti statali
Non è una Manovra da bocciare, dunque. Si tratta di una serie di provvedimenti che sono però molto agganciati alla contingenza, in un momento storico che continua a non dare grandi spiragli di speranza. La situazione di “policrisi” (copyright Christine Lagarde) in cui continuiamo a muoverci ci costringe a continui bagni di realtà, accantonando ogni velleità di una visione più prospettica. Anche il Pnrr, che sembrava dover essere la panacea di ogni male, dimostra che non bastano le migliori intenzioni e che l’azione della pioggia di miliardi che è arrivata e arriverà non è una bacchetta magica.
La terza legge di Bilancio del governo Meloni è quindi meritevole di una sufficienza. Ma questo esecutivo non deve dimenticare di godere di un vantaggio enorme rispetto a quelli che l’hanno preceduto: a oltre due anni dal voto mantiene un gradimento pressoché invariato negli elettori, con un centrodestra che – complice l’implosione del centrosinistra – può guardare con ragionevole ottimismo al futuro, forte di una capacità di fare quadrato intorno alla Premier (nonostante qualche incidente di percorso) che il blocco progressista non ha saputo fare nemmeno a livello regionale. Ed è forse questo l’asso pigliatutto nelle mani del Governo: ma va sfruttato a dovere.