«Meno tasse, perché solo così si favorisce la crescita economica». Questo il mantra degli ultimi governi e delle ultime manovre finanziarie che, lungi dall’affrontare le grandi transizioni (come quella demografica e tecnologica) in corso in tutti i principali Paesi industrializzati o, ancora, lontane dal mettere in atto misure che favoriscano produttività e sviluppo, continuano a tradire una scarsa progettualità di lungo periodo. Nuovi bonus, come i 1.000 euro per i nuovi nati, assegno unico fuori dal calcolo dell’Isee, proroga delle decontribuzioni, aumenti delle pensioni minime sono solo alcuni dei provvedimenti di cui si sta discutendo: uno stanziamento per il 2025 di circa 30 miliardi di euro, sulla carta mirati a sostenere sanità, natalità e tagli al cuneo fiscale ma, all’atto pratico, destinati a finanziare ulteriori forme di “assistenza di sussistenza”, che sembrano ignorare dati fondamentali per la tenuta dei nostri conti pubblici.
A cominciare da quelli che vedono il welfare assorbire già più della metà della spesa pubblica complessiva, con oltre 300 miliardi pagati, attingendo alla fiscalità generale, solo per assistenza, sanità e welfare degli enti locali. Nel 2022 per finanziare queste tre funzioni statali sono occorse pressoché tutte le imposte dirette Irpef (quasi 170 i miliardi versati per Irpef ordinaria al netto di Tir e detrazioni), addizionali, Ires, Irap e Isost e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’Iva. E per scuola, infrastrutture, giustizia e tutto il resto? Ecco che rimangono solo le residue imposte indirette e le altre entrate o, in alternativa, la pericolosa strada del “debito” che, ormai prossimo ai 3mila miliardi, continua ad aumentare nell’indifferenza generale.
Con un fardello così pesante sulle spalle, l’Italia può davvero permettersi una classe dirigente che, anziché razionalizzare la spesa e introdurre meccanismi di controllo più severi, fa promesse senza alcuna visione di futuro? Gli oneri assistenziali dal 2008 a oggi sono più che raddoppiati ma, eccezionale paradosso, sono di pari passo aumentate le famiglie in condizioni di povertà: prima di proseguire lungo la strada degli sgravi e dei sussidi, sarebbe forse il caso di guardare ai numeri. E di analizzare con maggiore attenzione anche le dichiarazioni dei redditi degli italiani e i loro consumi. Come ci ricorda l’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate realizzato da Itinerari Previdenziali con il sostegno di Cida, nel 2023 hanno presentato una dichiarazione dei redditi positiva, e hanno dunque versato almeno 1 euro di Irpef, solo 32,373 milioni di cittadini su 59,030 milioni di abitanti. Ciò vuol dire il 45,16% degli italiani non ha redditi, non versa né tasse né contributi, e vive di conseguenza a carico di qualcuno (1,405 la media per contribuente): una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che a uno Stato del G7 come l’Italia, che in effetti primeggia in Europa per possesso di abitazioni, automobili, smartphone, animali da compagnia e persino per risorse destinate al gioco d’azzardo.
Nel 2023 hanno presentato una dichiarazione dei redditi positiva, e hanno dunque versato almeno 1 euro di Irpef, solo 32,373 milioni di cittadini su 59,030 milioni di abitanti
E c’è persino di più. Il 40,35% dei dichiaranti con redditi fino i 15mila euro lordi l’anno – che, con la quota di persone a carico, rappresentano circa 23,818 milioni di abitanti – versa l’1,28% di Irpef. Solo per garantire loro la sanità occorre dunque che altri contribuenti, o in alternativa le casse dello Stato, versino più di 50 miliardi; a tanto ammonta, infatti, la differenza tra l’Irpef versata da questi cittadini e la relativa spesa sanitaria, nel 2022 pari a 2.221 euro pro capite. Sommando anche i 5.398.261 dichiaranti da 15mila a 20mila euro annui che, per l’effetto bonus-Tir, si riducono a 4.936.319 versanti (il 12,84% del totale) e che pagano il 5,02% dell’Irpef, si ottiene che il 53,19% dei contribuenti – pari a oltre 31,4 milioni di cittadini – versa soltanto il 6,31% di tutta l’Irpef, e verosimilmente una percentuale simile di altre imposte. La spesa sanitaria “a debito” sale così a quota 60 miliardi. Ora, la salute è un diritto primario e non sacrificabile ma di questo passo, vale a dire se nessuno paga, altro che aumentare gli stanziamenti o il numero di medici e infermieri!
Ma chi paga allora le tasse sostenendo di fatto anche il finanziamento del nostro generoso welfare state? Posto che il 53,19% versa il 6,31% dell’Irpef, e quindi è del tutto a carico della collettività, che il 31,55% è pressoché autosufficiente su quasi tutte le funzioni salvo per l’assistenza, la gran parte dell’imposta sulle persone fisiche è versata dal 15,26% di contribuenti che dichiara redditi da 35mila euro in su, sobbarcandosi più del 63% dell’Irpef complessiva e, verosimilmente, anche una buona quota delle restanti imposte dirette. Una minoranza (circa 6 milioni di persone) paga per tutti, ritrovandosi però esclusa – se non per qualche bonus e una parte dell’Auuf – da quasi tutte le agevolazioni.
La gran parte dell’imposta sulle persone fisiche è versata dal 15,26% di contribuenti che dichiara redditi da 35mila euro in su, sobbarcandosi più del 63% dell’Irpef complessiva
L’Italia, unica nel suo genere, è del resto il Paese della tripla progressività: la prima riguarda il fatto che più un soggetto guadagna e più paga; la seconda (altrettanto legittima) è data dall’incremento dell’aliquota. La terza, invece, è una progressività che si potrebbe definire quasi “occulta”, perché mai evidenziata dai fautori della riduzione delle imposte, i quali di rado considerano che, all’aumentare del reddito diminuiscono fino a sparire del tutto le deduzioni, incentivando fenomeni come quello delle sotto-dichiarazioni. Provocatoriamente verrebbe infatti da chiedersi: perché dichiarare quanto davvero si percepisce se questo significa rinunciare a possibili prestazioni sociali o altre agevolazioni (mense scolastiche, bonus trasporti e così via) da parte di Stato, Regioni e Comuni?
Si può davvero andare avanti così? Verrebbe da dire di no, e infatti siamo ultimi in Europa per tasso di occupazione e produttività. In compenso però primeggiamo in Europa anche per elusione fiscale, sommerso ed economia non osservata, che la stessa Istat quantifica per il 2022 in circa 200 miliardi di euro.