A bordo dell’Orient Express

Il mercato cinese si conferma di primaria importanza per le Pmi italiane, ma nel post pandemia qualcosa è cambiato. A partire dalla crescente concorrenza locale e dalle nuove preferenze espresse dai consumatori

“Il dinamismo del continente asiatico è un punto di riferimento nelle rotte delle esportazioni del Made in Italy“. Nel suo rapporto “Orient Express: un treno di opportunità per l’export italiano, che viaggia con Sace”, il gruppo assicurativo-finanziario definisce il continente “traino della crescita globale”, con uno share superiore al 60% del totale. L’Asia continua a crescere e lo fa in modo eterogeneo: la spinta verso un upgrade del tessuto manifatturiero di diversi Paesi (Vietnam e Malesia) così come il costante impegno verso l’innovazione tecnologica dell’industria e delle infrastrutture (in India e Thailandia) sono solo alcune delle chiavi di lettura dell’intensa dinamica dell’export italiano nell’area che, secondo le previsioni Sace, crescerà del 6,5% nel 2024 e del 6,1% nel 2025. La Cina resta il primo mercato di sbocco regionale, con un interscambio che nel 2023 ha raggiunto i 67 miliardi di euro. Le esportazioni italiane verso il Paese asiatico hanno toccato la cifra record di 19 miliardi di euro (un +17% su base annua), a fronte di 46,8 miliardi di euro di importazioni (-19%).

La Cina si attesta quindi come uno dei Paesi più interessanti per l’export italiano, primo mercato in Asia e secondo tra i Paesi extra europei dopo gli Stati Uniti. Secondo Sace, i commerci con la Repubblica popolare continueranno a crescere a un ritmo positivo, seppure inferiore a quello degli ultimi anni. Complice il rallentamento economico del Paese asiatico legato soprattutto al settore immobiliare. Le opportunità per le imprese italiane arriveranno dall’integrazione nelle filiere di settori legati alla transizione green: dall’automotive alle energie rinnovabili, dalla mobilità sostenibile all’agritech. Segmenti che Pechino annovera tra le cosiddette “nuove forze produttive”, tecnologie di fascia alta che nei piani della leadership comunista dovrà trainare la ripresa economica nazionale nel prossimo futuro. Nel mese di agosto, a stretto giro dal terzo plenum del partito, la dirigenza cinese ha confermato, tra le “riforme” in cantiere, “l’apertura ordinata” nel campo delle telecomunicazioni, di Internet, dell’istruzione e della sanità, oltre all’intenzione di riservare parità di trattamento alle imprese nazionali e a quelle straniere. Incentivi statali saranno direzionati verso i servizi, settore in ripresa laddove il retail stenta a decollare.

La visita di Giorgia Meloni in Cina lascia intravedere uno spiraglio per le aziende nostrane interessate a sfruttare la fase espansiva avviata da Pechino. Significativa l’attenzione riservata alle piccole e medie imprese (Pmi) che per numero, fatturato e forza lavoro si ergono a struttura portante dell’intero sistema produttivo nazionale. Soprattutto nel contesto dell’Asia orientale, dove il 96,5% delle aziende italiane esportatrici sono per l’appunto Pmi pari a un peso del 50,2% del valore complessivo delle transazioni in uscita. In questo senso va letta l’iniziativa, proprio di Sace, di sostenere con 200 milioni di euro, stanziati da Hsbc come global coordinator, Intesa Sanpaolo e Mufg, lo sviluppo di nuove opportunità di export Made in Italy in Cina per Pmi operanti nel settore del food, della meccanica strumentale, dell’automotive e della chimica. Per questo è stato coinvolto uno dei maggiori gruppi privati cinesi come Legend holdings corporation. Ugualmente, il piano d’azione rilasciato da Roma e Pechino strizza esplicitamente l’occhio alle Pmi tanto nell’auspicare un potenziamento dell’e-commerce (attraverso un lavoro sulla logistica e a tutela delle indicazioni geografiche) quanto nel porre l’accento sulla protezione della proprietà intellettuale.

Nel contesto dell’Asia orientale, il 96,5% delle aziende italiane esportatrici ha una dimensione piccola o media

Va detto che, se per estensione geografica e complessità culturale, il contesto cinese non è mai stato semplice, ora lo è ancora meno. Non solo per via delle difficoltà economiche e delle tensioni geopolitiche con l’occidente. «Prima della pandemia di Covid-19, il mercato cinese rappresentava un’opportunità favorevole per la vendita di prodotti italiani. Oggi, la situazione rimane promettente, ma sono emerse nuove sfide», ci spiega Alberto Antinucci, consulente indipendente nonché docente di strategia aziendale cinese presso la H-Farm Academy e la Wuhan University of science and technology. «Una di queste sfide principali è la crescente concorrenza locale. I consumatori cinesi mostrano una predilezione sempre maggiore per i prodotti locali, soprattutto quando il prezzo è comparabile a quello dei marchi stranieri. Questo cambio di tendenza è dovuto all’elevata qualità dei prodotti locali e al design innovativo, che spesso li rende la prima scelta per i consumatori», spiega Antinucci.

Secondo l’esperto, due differenze significative rispetto al periodo pre-pandemia consistono nel fatto che oggi le campagne devono raggiungere un pubblico più vasto e diversificato: «Per questo la gestione del marketing deve essere affidata a società cinesi. Lo storytelling deve essere realizzato da cinesi per i cinesi, abbandonando le narrative occidentali. Questo è essenziale per adattarsi alle specificità culturali di un mercato che richiede una presenza capillare per catturare l’attenzione del consumatore». Nel settore B2B, non è più possibile affidarsi a un distributore che gestisca tutto in autonomia. «Le aziende cinesi che si propongono come distributori vogliono un controllo completo sul marchio, sui prodotti e sulle vendite, senza fornire prestazioni o garanzie. Per mitigare questo rischio, è fondamentale una strategia di protezione robusta, che include la registrazione di brevetti e design, oltre a offrire un servizio di assistenza altamente efficiente», chiarisce Antinucci. In questo gli accordi siglati dal governo Meloni hanno portato vantaggi significativi per le Pmi italiane, «facilitando l’accesso al mercato cinese e migliorando le condizioni per gli investimenti grazie all’introduzione di garanzie in termini di protezione della proprietà intellettuale, incentivi fiscali e supporto per l’innovazione tecnologica».

L’unica vera alternativa alla Cina è, in effetti, la “nuova Cina” stessa: un Paese con 800 milioni di persone appartenenti alla classe media, dotate di un potere d’acquisto significativo e pronti a investire

Davanti alle crescenti difficoltà, c’è chi guarda ai mercati asiatici alternativi. Come segnalato da Sace, il Vietnam e la Thailandia emergono come aree di interesse crescente. Tuttavia, per Antinucci, «è importante ricordare che l’economia combinata di queste due nazioni rappresenta meno del 5% del valore totale della crescita prevista dalla Cina. Questo dato sottolinea come le opportunità offerte da questi paesi, anche se interessanti, non possano ancora competere con il vasto potenziale cinese, mentre in India il vero problema risiede nella grande discrepanza di classe sociale tra la classe povera e quella ricca, annullando di fatto la classe media». Questo crea un mercato meno uniforme e più complesso da penetrare rispetto alla Cina. «L’unica vera alternativa alla Cina è, in effetti, la ‘nuova Cina’ stessa: un Paese con 800 milioni di persone appartenenti alla classe media, dotate di un potere d’acquisto significativo e pronte a investire in beni di qualità a un prezzo giusto», spiega l’esperto, secondo il quale «l’epoca delle vacche grasse è finita». Le Pmi italiane devono adattarsi a questa nuova realtà, puntando su prodotti di alta qualità e su strategie di marketing efficaci per conquistare una clientela sempre più esigente e sofisticata.

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