Il mio lavoro sulla reputazione, in gran parte pubblicato nel libro del 2018 “Reputation. What it is and Why it Matters” (Princeton University Press) si può distinguere in due questioni principali: una questione morale, che si domanda se la reputazione, se acquisire una reputazione, sia un fine ultimo o è un mezzo per altri fini, per esempio fini di interesse economico o di sopravvivenza. E di che cosa è fatta una reputazione? Quanto possiamo controllarla? Di quanta reputazione abbiamo bisogno per soddisfare i nostri bisogni di visibilità e credibilità?
E una questione epistemologica che cerca di comprendere come la gente “legge” le reputazioni degli altri. Può la reputazione essere un indicatore di verità, di credibilità, di responsabilità? Se mi fido di un’azienda per la sua reputazione, ho ragioni di fidarmi o no? Questione che mi sembrava urgente data la proliferazione di etichette, brand, gerarchie reputazionali, ranking, etc… dovute alla globalizzazione e alla digitalizzazione della società.
La reputazione è la traccia che tutte le nostre azioni, parole e modi di presentazione lasciano nelle menti degli altri. È una nuvola di rappresentazioni di noi stessi che non vive dentro di noi, ma è esterna a noi: è la parte di noi che vive negli altri. La reputazione è la parte “immortale” di noi perché vive fuori di noi, vive negli altri. Può ingigantire il nostro ego come schiacciarlo, può trasformarsi ancora dopo la nostra morte.
La ricerca di reputazione fa parte della natura comparativa dell’essere umano, che costituisce il suo ego attraverso un feedback continuo con l’ambiente esterno misurando l’impatto positivo o negativo che una sua azione ha avuto sugli altri. La formazione del nostro ego è intrinsecamente legata alla costruzione della nostra reputazione.
Questo io sociale, che vive negli occhi e nelle bocche degli altri, che circola senza il nostro controllo, è la parte più profonda della nostra agency ed è la più fragile. Passiamo l’intera nostra vita in questo avanti indietro tra il nostro io e come pensiamo che gli altri ci vedano, commettiamo errori e facciamo compromessi per controllare la nostra reputazione quando spesso l’immagine che proiettiamo al nostro esterno è diversa da quella che vorremmo proiettare.
L’essere umano costituisce il suo ego attraverso un feedback continuo con l’ambiente esterno misurando l’impatto positivo o negativo che una sua azione ha avuto sugli altri
Queste questioni morali fondamentali mi hanno permesso di individuare alcune caratteristiche strutturali della reputazione che spiegano perché è talmente fragile e resta un fenomeno non completamente compreso formalmente. Innanzitutto, la reputazione non è l’opinione aggregata che gli altri hanno di noi. È cosa noi pensiamo che gli altri pensino di noi. È una grandezza meta-rappresentazionale: è come ci immaginiamo che gli altri ci immaginano. Inoltre, la reputazione è una grandezza non-lineare: il suo crescere e diminuire non è progressivo, perché è influenzato da un numero di meccanismi che creano effetti non-lineari, come le cascate informazionali, gli effetti citazionali e altri processi di contagio sociale (ignoranza pluralistica e altro). Infine, le strategie che mettiamo in atto per costruire e mantenere una reputazione, sono sempre incerte: quello che noi segnaliamo agli altri di noi stessi non è sempre percepito come vorremmo.
I tratti che sottolineo della reputazione fanno sì che essa sia l’aspetto più angosciante della costruzione della nostra vita, perché fondamentalmente sfugge al nostro controllo. Di qui la fragilità che accompagna la costruzione del sé e insieme le reazioni sproporzionate e spesso fuori luogo che ognuno di noi ha per “correggere” o “riparare” la propria reputazione senza tener presente questa legge molto semplice del diffondersi della reputazione: le ragioni che gli altri hanno per diffondere la nostra reputazione non sono le stesse ragioni che noi abbiamo per crearla.
Molto di quello che ho detto fino ad ora sul ruolo della reputazione nella costruzione del nostro io vale anche per i soggetti collettivi, come le imprese o altre istituzioni.
Dopo la pubblicazione del mio libro nel 2018, ho avuto l’occasione di collaborare con diverse imprese in Italia e in Francia come consulente sulla loro reputazione.
La reputazione corporate è normalmente definita in questo modo: «A collective representation of a firm’s past actions and results that describes the firm’s ability to deliver valued outcomes to multiple stakeholders» (Fombrun e van Riel, 1997).
A partire da ciò che ho detto prima, io propongo una definizione lievemente diversa della reputazione corporate, che, una volta operazionalizzata, permette di comprendere meglio, secondo me, come costruire une reputazione corporate credibile: la reputazione di un agente collettivo è una relazione a tre posti tra come l’agente si vede, come si vede visto e come vorrebbe vedersi.
Allineare questo triangolo di percezioni e aspettative è il compito di chi si occupa della reputazione di un agente collettivo.
Il purpose, la mission e la vision di un’azienda sono ben concepiti quando il triangolo è allineato: sapere chi si è, cosa si fa al mondo, significa conoscersi a fondo e sapere che gli altri ci apprezzano per chi siamo.
La reputazione di un agente collettivo è una relazione a tre posti tra come l’agente si vede, come si vede visto e come vorrebbe vedersi
Normalmente io intervengo nelle aziende con interviste dettagliate al top management, che rispondono al “come mi vedo” e al “come vorrei vedermi”, per poi realizzare una serie di questionari ai diversi stakeholder: impiegati, clienti, azionisti, media, che rispondono al “come mi vedo visto”.
Spesso le aziende si trovano in una vera e propria crisi esistenziale, come quelle che succedono a tutti noi individui. Chi siamo? Cosa vogliamo? Cosa facciamo al mondo e perché? Non riescono a proiettarsi nel futuro. Non conoscono chi li sta guardando, perché il loro mercato si è globalizzato, o ha cambiato generazione, o passa il tempo sui social costruendo un’immagine dell’azienda frammentata e motivata da valori che non sono all’interno dell’azienda ma sparsi nell’opinione pubblica.
La mia analisi consiste nel comprendere quali dimensioni della reputazione siano rilevanti per un’azienda: dove puntare insomma per avere una reputazione credibile.
La reputazione, infatti non è una grandezza uniforme: è fatta di pezzi molto differenti. I diversi item reputazionali sono conosciuti nella letteratura di corporate reputation: affidabilità, performance finanziaria, stabilità finanziaria, qualità del prodotto, etica e responsabilità, qualità dello spazio di lavoro e della vita dei dipendenti, etc…
Nel mio lavoro, io personalizzo questi item a seconda dell’azienda, creando una “ruota reputazionale” che mi permettere di discernere le dimensioni importanti per quella realtà.
Inoltre, i risultati vengono analizzati statisticamente con il metodo della regression analysis che permette di stabilire correlazioni nascoste tra le varie dimensioni: per esempio, se la loyalty risulta particolarmente importante, anche l’innovation risulta importante.
Il risultato di quest’analisi complessa è una sorta di “bussola reputazionale” che dà all’azienda una misura di quanto pesa ogni dimensione della reputazione per ogni stakeholder, e di quanto dista la rappresentazione di sé da ciò che si vuole proiettare e da come gli altri vedono l’azienda.
Risultato: una buona reputazione è un condensato di come mi vedo, come mi vedo visto e come vorrei essere visto. I tre angoli del triangolo vanno insieme.
Ciò ci permette di trarre alcune conclusioni sulla reputazione corporate. In primo luogo, una buona reputazione è un allineamento tra come mi vedo e come mi vedo visto: se gli altri mi rimandano di me una rappresentazione, pur positiva, in cui non mi riconosco c’è qualcosa che non sto capendo di me stesso. In secondo luogo, una buona reputazione è un allineamento tra come mi vedo visto e come vorrei vedermi (le mie aspirazioni): il “come mi vedo visto” costituisce il pool di risorse su cui posso costruire delle aspirazioni ragionevoli. Se voglio sembrare quello che non sono, per esempio se sono un’azienda che estrae petrolio e voglio darmi un’immagine green sto sbagliando strada. Infine, la reputazione non è un’opinione esterna sul nostro io (individuale o collettivo): è parte integrante della costruzione del sé.
Il “come mi vedo visto” costituisce il pool di risorse su cui posso costruire delle aspirazioni ragionevoli. Se voglio sembrare quello che non sono, sto sbagliando strada
Questo aspetto profondamente interattivo e integrato della reputazione, come una forma di cognizione estesa del nostro sé, è l’aspetto più caratteristico del mio lavoro su questo tema. La reputazione non è un giudizio aggregato degli altri su di noi, è una realtà molto più complessa: è una nuvola di rappresentazioni che sta dentro e fuori di noi, che si alimenta e si modifica dall’esterno e dall’interno. È in questa nuvola che il nostro sé esiste e in nessun altro luogo.